martedì 25 marzo 2008

Due storie per due uomini


Questa volta sono due storie di uomini che voglio raccontarvi. Storie diverse, ambientate in epoche diverse, in paesi lontani tra loro, ma che hanno in comune un’incompletezza di fondo, a volte latente e ambigua, altre volte manifesta e impossibile da non considerare. La prima è la storia, intitolata Il mio cane stupido scritto da John Fante e raccolta nel libro A ovest di Roma. E’ la storia Henry Molise, scrittore cinquantenne, padre di figli più o meno scapestrati persi nella spensieratezza della gioventù e frutto di un rapporto familiare dagli equilibri precari. La moglie di Henry poi, è in lei che si può riscontrare quel senso di rabbia, di repressione, di sopportazione di tutte le negatività di una famiglia: è lei che sostiene con le sue esili braccia il fardello familiare. Si perché Henry Molise è alla costante ricerca di una sua identità definitiva, solida, tangibile; è l’Orlando perso nel bosco narrativo alla caccia della sua Angelica che altro non è che l’estenuante e infinito errare dell’uomo nel vuoto della sua incompletezza. Henry cerca un suo io, ma deve scontrarsi con la terribile superficialità delle cose come il lavoro, i figli, un cane (al centro della storia, falsamente messo sotto i riflettori da John Fante, ma che poi si rivela un semplice strumento per scatenare gli eventi), dei vicini, il costume americano circoscritto e ben curato come il giardino della villetta a Y dove Henry vive. E quando la realtà fa troppo male, entra nelle carni e l’accettazione di questa diventa insostenibile, Henry pensa a Roma, la sogna, la concepisce come un nido accogliente, una tana dove rifugiarsi nel codardo tentativo di scappare dalle responsabilità, di mollare tutto. La scrittura asciutta e diretta di John Fante permette al lettore di addentrarsi nella psiche del protagonista e, allo stesso tempo, di non perdere lo svilupparsi degli eventi, del mutare della storia. Fante si lascia leggere come un abbraccio mai troppo stretto, ma neanche rassicurante, nelle sue parole c’è sempre un pizzico di inquietudine, leggero, certo, ma pur sempre presente e costante. C’è l’idea che tutto quello che sta accadendo in quelle pagine possa crollare, la paura che la normalità del personaggio possa infrangersi, che la sua stabilità possa scivolare su di un piano maledettamente inclinato. E se bramiamo alla nostra completezza nell’idea del nuovo, del cambiamento, perché questo timore per la sorte di Henry Molise, per il depauperare della sua esistenza in nome di una ricerca di un suo completamento?

L’altra storia, tutta italiana, è quella che scrive Igino Domanin col suo romanzo d’esordio Spiaggia libera Marcello. Una storia che vede come protagonista Marcello, un laureato dalle ambizioni ormai spente in un istituto professionale dove insegna e che vive un paese senza sogni, senza speranze, in un’Italia tragicamente vuota e silenziosa. Marcello soffre di vertigini ma, questa sua debolezza, sembra provenire più dall’ambiente esterno che, al contrario, dal suo corpo, dalla sua carne. La vita di Marcello, costantemente in bilico sul ciglio dello strapiombo dei vuoti della realtà, cambia radicalmente perché ecco giungere una proposta di lavoro in un’università avveniristica situata nella ridente e tranquilla Svizzera. E’ grazie ad un vecchio compagno di studi, il Panzeri, che Marcello ricordava come un tipo goffo, dalle camicie sudate e i capelli unti, uno di quelli che ancora veniva vestito dalla madre, l’autorità inossidabile della sua vita, ma che ora appare come un uomo dinamico, dal fisico asciutto, ostentatore di una fiducia e sicurezza nella vita. E Marcello si sente in debito con lui, si pone su di un livello più basso di prostrazione e rispetto. L’equilibrio nei rapporti che variano, si ribaltano, mutano a seconda degli interessi portati con peso e fatica dai diversi personaggi che popolano la storia, rende Spiaggia libera Marcello un romanzo di piccole solitudini per piccoli uomini, consapevoli dei loro vuoti e che non si dimenano più per riempirli, ma semplicemente vivono per sopravvivere e convivere con questi. Igino Domanin dipinge Marcello come il paradigma della rassegnazione del nuovo millennio, uno sconforto che si affievolisce di fronte alla semplice e inossidabile sopravvivenza in questo mondo; alla fine del romanzo è proprio questo estremo bisogno alla sopravvivenza, questo stringere forte un sostegno per non essere inghiottito dalla vertigine, che rende la storia un ciclo che si ripete, un binario che riporta al punto di partenza, e il paesaggio resta immutato.

Due storie che si impregnano dello sconforto di questi tempi ma che, a mio parere, contengono in esse una visione, seppur decadente, quantomeno aderente alla realtà. Queste due storie, di questi due uomini, sono l’esempio in parole che spesso la cura è nascosta nella malattia, che infondo c’è sempre una speranza, la speranza dello scrivere ad esempio, del confronto attraverso un romanzo, un’emergenza nel comunicare per condividere i nostri dubbi e che, infine, la vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare.

giovedì 13 marzo 2008

La convergenza c'è

Una piccola premessa. Sto scrivendo in questi giorni dei racconti, lanciando in avanti la volontà ho visto che questa è cascata a quota nove. Insomma, dovrò arrivare a nove racconti per poter esplicare al meglio le tematiche che sto affrontando. Mi piace il numero nove perché un numero di confine, è l’ultimo numero con una sola cifra, l’ultimo dei più piccoli, il confine che delimita i numeri semplici, quelli che si possono contare con le mani nude, a quelli con due e più cifre, più complicati e altezzosi. Sto terminando il terzo racconto, quasi autobiografico, quasi perché non posso fare a meno di insaporire il tutto con del ritmo da fiction che fa scorrere la lettura ed evita al presunto lettore di non inciampare in ricordi troppo ingombranti (o peggio ancora spigolosi). L’idea è quella di pubblicare i racconti sul blog, ma, vista la loro lunghezza, ho paura che la lettura possa risultare noiosa e faticosa. Comunque, a giochi fatti vedrò come proporvi i racconti, intanto continuo a scrivere.

La storia di Vespa e dei blog si è sviluppata, non a caso, sulla rete. La questione è stata approfondita con interventi davvero interessanti, dissertazioni su quanto e come il web riesce ad influenzare l’agenda dei media (di contro, c'è anche chi scrive di vespaio inutile), in passato impostata dalla televisione, ora messa in discussione dalla comunicazione personale, orizzontale, collaborativa della rete. C’è chi parla di rappresaglie tra i vecchi e nuovi media, e che quella di Porta a Porta è la dimostrazione che, queste rappresaglie, potrebbero trasformarsi in vere e proprie battaglie. E’ un’ipotesi verosimile se non ci si rende conto dell’integrazione tra i media e non al solito scontro, al muro contro muro. Io sono del parere che, oggi, nel 2008, la televisione impostata da Bruno Vespa è perdente perché non tiene conto della convergenza mediatica, dell’integrazione del vecchio col nuovo, e sono altrettanto convinto che la tv possa dare molto nelle sue forme. E poi non posso ignorare quanto un pubblico specifico possa influenzare i contenuti dei media: Porta a Porta si relaziona con dei telespettatori che alla parola internet collegano all’istante la parola (calcata dai tg, dagli opinionisti ecc…) come videobullismo, pornografia, prostituzione, violenza e chi più ne ha più ne metta. La televisione, impostata così com’è oggi, non chiede di mettersi in gioco in prima persona scegliendo, rielaborando o editando contenuti, cosa che offre la rete; e se oggi i prodotti realizzati e condivisi sul web riescono a perforare la fitta coltre dell’indifferenza della tv generalista, dell’editoria monolitica, della pubblicità cartellonistica e anonima, ciò vuol dire che le cose stanno cambiando e che la convergenza si sta affermando.

giovedì 6 marzo 2008

Donne, due punti


Un uomo che parli di donne suona male. Le donne sono troppo forti, ecco tutto, sono decisamente più forti degli uomini, ciò spiega perchè questi hanno paura (compreso il sottoscritto) e si rassicurano tenendo stretti quei principi della vaga e vana mascolinità. Le donne capiscono senza parlare, ti scrutano nel fondo degli occhi lasciandoti perso come un bambino in cerca dei suoi genitori nel mezzo di una folla anonima. Le donne, viste dagli uomini, sono particolari fisici, linee morbide, tratti aggraziati, capelli che nascondo, occhi che abbagliano; le donne, invece, sanno raccogliere con un solo sguardo la totalità del gesto, la completezza di un individuo, ecco ciò che le rende forti, praticamente invincibili. La società che eleva l’uomo e lo compara al soggetto dominante ha una paura fottuta delle donne, così le demonizza: streghe, puttane, infedeli, cagne e quant’altro. Hai paura, uomo di quello sguardo, hai paura di sentirti sviscerato nell’anima, hai una paura fottuta. Dolci e aspre allo stesso tempo, non so perché, ma quando penso alle donne mi viene in mente il mare di Sicilia, onde morbide e calme e terra brulla ed arida.

Le donne, due punti, poi sta alle parole proseguire, riempire gli infiniti spazi bianchi che si stagliano nell’orizzonte. La definizione di donna o di uomo è impossibile, credo. Sarebbe come voler scolpire l’aria. Filippo Timi è un uomo che, mostrando un bel po’ di onestà intellettuale, non ha perseguito una definizione di donna nel suo E lasciamole cadere queste stelle, ma ha cercato di raccontare, attraverso delle storie, le sensazioni che una donna può provare. Certo, il grosso rischio sta nel provarle indirettamente ovvero grazie ad un’attenta e nitida analisi dell’animo femminile e sperare che quelle parole possano trovare conferma nella mente delle donne. Ciò che stupisce è l’onestà di quelle parole, a detta di alcune donne che lo hanno letto.

Il libro raccoglie parecchie storie al femminile, brevi, sfumate, senza alcun dettaglio oggettivo, ma costruite su velate sensazioni raccolte dai sensi e riproposte in frasi brevi e con un linguaggio asciutto decisamente teatrale. Infatti Filippo Timi è un attore di teatro, comparso anche sulla scena cinematografica e attualmente impegnato nelle riprese del film Come dio comanda di Salvatores. C’è nelle sue storie l’intento di puntare un occhio di bue sulle figure femminili che si alternano nello scorrere delle pagine, offrendo al lettore una sorta di monologo, spesso in prima persona, intenso e impregnato di istanze fortemente umane: amore, piacere, dolore, rancore, noia, ribrezzo, affettuosità, onestà, superbia si mescolano e si concentrano su volti delicati o grotteschi. Leggendo il libro si fa conoscenza con archetipi di donne ora ferme e decise, ora tremanti ed insicure. O forse è l’espressione sincera del lato femminile presente in ogni uomo, spesso tenuto in penombra o addirittura relegato nel fondo delle coscienze, assoggettato da una mascolinità goliardica e balbettante, persa nei suoi borbottii e incantata dalla complessa semplicità di una donna.