sabato 29 dicembre 2007

I dieci libri più belli del 2007


Ho buttato giù una classifica squisitamente personale su i libri più belli in questo 2007 che sta facendo le valigie. Ho dovuto sacrificare qualche altro bel libro, ho con piacere escluso diverse "sole", ho premiato le emozioni che questi libri mi hanno trasmesso. E' stato un anno bello, intenso, pieno di storie interessanti, di tanti sorrisi, di qualche lacrima, pochi abbagli, un pò di incertezza. Questo blog poi, è una delle belle cose da ricordare di questo anno, sperando che sia pieno di sorprese per l'anno che verrà. Grazie per avermi letto in questi mesi, grazie per i complimenti ricevuti, grazie per aver apprezzato le parole che costudisco in questo piccolo isolotto nel mare infinito della rete. Spero di rincontrarvi tutti il prossimo anno.

  1. Cormac McCarthy – La strada
  2. Luther Blisset – Q
  3. Elsa Morante – Lo scialle Andaluso
  4. Roberto Saviano - Gomorra
  5. Stefano Benni – La grammatica di Dio
  6. Raymond Queneau – Zazie nel metrò
  7. Mitch Cullin – Tideland
  8. Don De Lillo – Americana
  9. Paolo Nori – La vergogna delle scarpe nuove
  10. Amara Lakhous – Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio
Postilla: lo spumante si stappa come la foto mostra... auguri!

giovedì 27 dicembre 2007

Io sono leggenda (o quasi)


Finisce con il libro Io sono leggenda, il breve viaggio nel tema l’uomo rimasto solo. Il libro in questione, per quanto possa avere dei punti di contatto con quello di McCarthy, sviluppa una storia decisamente più cinematografica, influenzata dalle esperienze letterarie di Richard Matheson, l’autore. In breve, Robert Neville aveva una sua vita normale, aveva una famiglia a cui voleva bene, era innamorato di sua moglie, orgoglioso della figlia, ma poi una terribile epidemia lo lascia solo. Un virus misterioso rende le persone vampiri (si, avete capito bene, vampiri), stranamente Robert è immune al virus, si troverà così a vivere in un mondo che, di giorno, è desolato e, di notte, si riempie di volti pallidi e canini aguzzi. Il terribile agente patogeno colpirà anche moglie e figlia del povero Robert; questo, malgrado tutto, riesce a campare, covando però una solitudine crescente. La storia, partendo dalla cronaca di una giornata tipo del protagonista, introduce il lettore in questa America popolata dai vampiri e, forse, dall’ultimo degli esseri umani (Robert) che non si ciba di sangue, testimone di un mondo che sta scomparendo. L’intreccio è scostante, non riesce a mantenere alto il ritmo narrativo. Le azioni sono ben descritte, sono coinvolgenti, ma poi le fasi di respiro allentano troppo la presa e finiscono per rendere tutto un po’ banale. Leggendo la storia riuscivo a prevedere le mosse del protagonista, vuoi perché questo è costruito sulla falsa riga dell’eroe cinematografico americano, vuoi perché la storia, a parte qualche eccezione, non si discosta mai dalla forma del protagonista, adattandosi a questo. Insomma, sembra più che il personaggio proponga delle problematiche e lasci alla storia il compito di risolverle, che non il contrario.

Leggendo Io sono leggenda pensavo a come riuscisse il protagonista a poter sopravvivere in una città che di giorno è inanimata. Passi la storia del generatore che permette a Robert Neville di avere luce e di usufruire delle comodità degli elettrodomestici, ma come può, ogni volta, poter gustarsi della carne congelata? Come può far uso di acqua potabile quando le strutture idriche sono senza una manutenzione assidua? Lo so, sembrano le domande che porrebbe il ciccione fumettista dei Simpson all’autore del libro durante un incontro con i lettori, lo ammetto, ma dopo aver letto La strada (che si sviluppa su fondamenti drammaticamente realistici) la domanda di maggiore onestà narrativa è automatica.

Richard Matheson è uno scrittore di fantascienza, così almeno sta scritto sulla quarta di copertina. La postfazione di Valerio Evangelisti fa luce sulla figura di Matheson a me ignota, e si viene a sapere che lo scrittore americano, etichettato come scrittore fantascientifico, risulterà tutt’altro. Effettivamente, stando al libro letto, a parte la terminologia scientifica usata per spiegare il virus nella fase deduttiva della storia, una città invasa dai vampiri fa poco fantascienza. Matheson, secondo il buon Evangelisti, mescola diversi ingredienti provenienti dalla letteratura di genere. Nella lettura di Io sono leggenda puoi trovarci un po’ di horror, qualcosa di fantascientifico (mica poi tanto), c’è dell’action movie, c’è dell’ironia da sit com e dinamicità narrativa tipica dei fumetti americani degli anni cinquanta. Ma i sapori non conciliano tra loro, anzi, tutto risulta sconnesso. Per tirare le somme, la storia c’è ma ha il gusto del mescolamento fatto in fretta e furia, da offrire a gole secche capaci di bersi di tutto, io, probabilmente, non avevo tanta sete.

Postilla: non ho scritto niente riguardo l’imminente film dal titolo omonimo, non me ne vogliate, ma, se il libro non mi ha fatto impazzire, che cosa potrà essere la trasposizione cinematografica? E poi il protagonista nel film è di carnagione chiara, di ceppo anglotedesco, cacchio centra Will Smith?

sabato 22 dicembre 2007

Lettera aperta a Babbo Natale


Caro Babbo Natale, so bene dei tuoi impegni e di quanto puoi essere oberato di lavoro in questi giorni di delirio natalizio. So altrettanto bene dei tuoi problemi. Nel Polo Nord la situazione non è facile: lo scioglimento dei ghiacci è un bel dilemma, la neve arriva sempre più tardi, le renne hanno caldo, il loro folto pelo le fa sudare. Qualcuna è stata acquista dalla Disney per farla sfilare nei parchi a tema. Diciamocelo, poteva andargli anche peggio. Ma lo so, a te non piace questa soluzione. In passato le renne sfrecciavano nel cielo, arrampicandosi tra le nuvole. Purtroppo con il caldo che fa, anche di inverno, le poverette fanno fatica a stare in movimento ed ecco i tristi risultati.

So anche della situazione socio-economica. La concorrenza asiatica sta mettendo in ginocchio te e tutta la tua azienda. Effettivamente il Babbo Natale asiatico, realizzato appositamente dal governo cinese per il mercato natalizio occidentale, sta mettendo a segno un successo dietro l’altro. Certo, è più economico, mi dirai, i giocattoli che regala ai bimbi sono prodotti realizzati da manodopera sfruttata e sottopagata. Certo, hai ragione. Ma guarda le conseguenze: più di mille elfi dal prossimo gennaio entreranno in cassa integrazione. Non è bello tutto ciò. Non è bello nemmeno vederti infilare il giubbotto anitiproiettile ogni qualvolta entri nello spazio aereo americano. Di certo lo fai per salvarti la pelle, lo so, ma agli occhi dei bambini che effetto può fare vederti vestito come un agente speciale FBI? Non buono, caro Babbo Natale, non buono. E che dire di tua moglie? Da quando ha scoperto che in Italia ci sono trasmissioni che mettono a centro dell’attenzione personaggi caduti nel dimenticatoio o, peggio ancora, figure squallide devote ad accrescere l’immagine del trash televisivo, non ha potuto fare a meno di partecipare ai provini per l’Isola dei Famosi. Ed ha pure vinto. Aspettiamoci la sua apparizione sull’isola, alla ricerca di qualche frutto, intenta a depilarsi le molli cosce al sole dei Carabi.

Come puoi leggere, in questa mia lettera non c’è alcun desiderio preciso. La mia è più che altro una lettera di solidarietà a te ed alla tua vita. Ti capisco e ti sono vicino. In questi momenti sarai impegnato a definire i dettagli della tua prossima apparizione. Girerai il mondo con la slitta ancora un po’ più stanco dell’anno prima, ancora un po’ più sconfortato del Natale precedente. Penserai, mettendo i doni sotto l’albero, che tutto quello che fai sembra non servire più a niente; che il mondo, in fondo, prende sempre l’altra strada, quella sbagliata. E mentre ti appresterai a salire sulla tua slitta, sentirai la schiena dolerti un po’ di più e nella tua testa affiorerà questa domanda: ma quando andrò in pensione con lo scalone?

martedì 18 dicembre 2007

La fine del mondo


Della serie l’uomo rimasto solo. La settimana scorsa ho letto La strada di Cormac McCarthy, libro uscito nell’autunno 2007 e che ha trovato buone, se non ottime recensioni. Ero incuriosito dalla storia, bene o male abbozzata, letta negli articoli. Padre e figlio sembrano essere gli unici sopravvissuti in un’America distrutta da una catastrofe ambientale, di dimensioni bibliche. I due emigrano verso sud, cercando costantemente del cibo, funestati da un freddo perenne, ridotti a scheletri e privi di qualsiasi residuo di felicità. In un mondo grigio dove niente sembra essere animato, dove la civiltà, ciò che elevava l’uomo a essere supremo e dominatore della terra, è ridotta in cumuli di cenere, un padre e un figlioletto trascinano le loro anime ancora illuminate da una fievole speranza. “Portano il fuoco”, i due: non si arrendono all’evidenza, cioè alla fine del mondo, al calar del sipario. L’uomo, scalfito dal freddo senza più nulla a cui credere, forse neanche più a Dio, vede nel figlio la speranza; vede nell’ingenuità del bambino, un fievole barlume di rivincita. Camminando lungo la strada, i due si imbatteranno nella disperazione dell’uomo che si fa crudeltà, sofferenza, solitudine, pazzia e, perlopiù, desolazione. Storie di bestie, più che di uomini, sono quelle che circondano le figure dei due personaggi principali.

McCarthy descrive un mondo che, come noi lo immaginiamo, non è più. E’ qualcosa simile ad una vecchia foto sbiadita abbandonata per terra, forse persa, forse volutamente gettata via, che agli occhi di uno sconosciuto appare una testimonianza muta, senza una sua storia da raccontare. E’ questo il mondo dopo la catastrofe. Le ovvietà dei nostri tempi, i palazzi, gli elettrodomestici, il calore, le comodità, la socievolezza, tutto questo è dannatamente sparito, o meglio estinto. Mi sono sentito spaesato leggendo La strada, privo di qualsiasi punto di riferimento. E’ un libro che trasmette delle emozioni fortissime, che raramente sono riuscito a provare negli ultimi libri letti.

In alcuni momenti ero completamente coinvolto nella lettura, immedesimato nella storia, senza via d’uscita. Quando staccavo gli occhi da quelle pagine così magnetiche pensavo: e se tutto questo che ho intorno dovesse finire? McCarthy, scrivendo un romanzo durissimo, mette in moto un meccanismo vincente, quello delle priorità. Pone a confronto lo spettro delle priorità del lettore, con quello dei due personaggi che lottano per la sopravvivenza, e, naturalmente, ciò induce a pensare. Una vita passata a riempirsi di futilità, un’America (che poi è il paradigma del nostro occidente) adagiata su valori ormai inconsistenti, fragilissimi. La strada è un brutto sogno, ci si risveglia e si fa un bel respiro di sollievo quando ciò che ci circonda è ancora tutto lì, intatto.

Io affiancherei La strada di McCarthy a Manituana dei Wu Ming. L’America, raccontata dal collettivo, nel suo principio all’inizio della fine; e l’America di McCarthy, dove la cenere, il freddo e la desolazione sono l’atto finale. Leggetevi Manituana per poi passare a La strada, farete un salto temporale lungo. Passerete dagli albori di un occidente incapace di sapersi rinnovare, stramaledettamente convinto di avere sempre e comunque il lume della ragione dalla sua parte, e poi vi ritroverete nelle lande deserte di McCarthy, dove un padre e un figlio (il vecchio e il nuovo) cercano di sopravvivere al freddo, cercando quel lume che, purtroppo, non riscalda più.

Postilla: ho esordito scrivendo "della serie l'uomo rimasto solo" perchè sto leggendo in questi giorni Io sono leggenda di Matheson, dove si ripete il tema dell'uomo solo in una terra deserta. Sono letture tematiche, un percorso che porterò a termine con questo secondo romanzo. Vi farò sapere impressioni e pareri. Salut'.

mercoledì 12 dicembre 2007

Eri piccola così

"T’ho veduta. T’ho seguita. T’ho fermata. T’ho baciata. eri piccola, piccola, piccola, così!"
Giro di contrabbasso. Locali fumosi. Sigaretta che pende pigra all’angolo della bocca. La cravatta nera allentata. Jazz e swing che sussurrano note nella notte. Una Torino nebbiosa e notturna che fa contorno. Il fumo poi, intangibile, sottile, dalle curve morbide quando non è disturbato, frastagliato quando è mosso dai corpi. Ferdinando Buscaglione, in arte Fred Buscaglione, è al centro di questo quadro da criminalsong. I suoi baffetti, consigliati da Fatima sua musa, sua donna, suo amore fin che il successo non travolgerà tutto, sono un’icona pop post seconda guerra mondiale.

Leggendo Turkemar (che è in copyleft, quindi se volete leggerlo cliccate qui) di Simone Sarasso, pensavo in bianco e nero. Le impressioni che il libro mi ha trasmesso, immediate e brevi, sono rovinate da una pellicola vecchia e polverosa e l’audio gracchiante. E’ una storia breve e intensa Turkemar, è la vita di Buscaglione, cantante swing in voga nell’immediato dopo guerra e, sfortunatamente, scomparso in un incidente automobilistico nel 1960. Conoscevo poco o niente sulla vita e carriera artistica del cantante torinese, il libro, che si legge in poco tempo (è un romanzo di circa un centinaio di pagine) ne approfondisce le zone grigie, ovvero quei passaggi della biografia di Buscaglione meno trattati e deformati da elementi di fiction. C’è un atmosfera buia, cara allo scrittore, non è un caso la sua candidatura al Premio Scerbanenco con il suo ultimo romanzo (per chi non lo sapesse, è un premio letterario dedicato al genere noir italiano), dipinge la vita del cantante swing, risaltando il concetto del successo e le sue conseguenze. Questo è il tema cardine della storia che coordina l’intreccio irrobustendolo con dialoghi diretti, efficaci, molto cinematografici. I personaggi sono abbozzati, forse proprio per via della brevità del romanzo che non permette al lettore di familiarizzare con i loro caratteri. Gli ambienti, invece, li ho sentiti veri, ben delineati, contesti strutturati al fine di rendere più scorrevole possibile lo svilupparsi della storia.

Buscaglione è un soggetto che si presta benissimo per una storia nera. Il dopo guerra poi, è un periodo della storia del nostro paese particolarmente affascinante. Nei termini della cultura popolare, c’era tanta ingenuità, voglia di riscattarsi e il mito americano, per quanto contrastato dall’autarchia imposta dal Pelatone, sfociò in tutte le sue forme dopo la liberazione. Tra queste, fatta una dovuta cernita del bello e del brutto, c’è lo swing all’italiana di Fred Buscaglione. Simone Sarasso riesce a inserire tutto questo, almeno io sono riuscito a scovarlo nella sua scrittura. E poi c’è la bravura di ibridare la storia con tanti elementi così lontani dal contesto buscaglioniano, come l’estrapolazione di alcune tematiche vincenti da Spawn o le citazioni prese in prestito da Snatch. Il risultato è un romanzo che scorre via, lasciandosi sfogliare in pochi attimi. Questa sua qualità, forse, è anche un limite. ci si aspetta di più chiedendo a Fred di fare il bis, ma, purtroppo, le storie devono anche finire.

Postilla: anche questo libro sono riuscito a spulciarlo dalla Fiera “Più libri Più liberi”, a dimostrare, ancora una volta, quanto le piccole, a volte piccolissime, case editrici siano capaci di realizzare ottimi romanzi.

Postilla due: davvero originale l’introduzione a Turkemar, titoli di apertura in stile graphic novel, che sembrano quelli di qualche b-movie anni settanta.

domenica 9 dicembre 2007

La banda della magliana a fumetti

Ieri mattina sono stato alla Fiera nazionale della piccola e media editoria. E’ stata un’ottima occasione per mettermi in contatto con piccole o piccolissime case editrici, che con le unghie e con i denti propongono bellissimi titoli. E’ stata l’occasione per conoscere da vicino la Becco Giallo, casa editrice di altissima qualità, notata anche dal buon Evangelisti che tempo fa ha lodato il lavoro di questa in un pezzo per Carmilla, domandandosi se il fumetto può essere veicolo di critica sociale (naturalmente la risposta è si). Ho acquistato con gran piacere La banda della magliana, fumetto disegnato dalla talentuosa mano di Stefano Landini e scritto da Simone Tordi e Stefano Valenti. Ieri sera mi sono immerso nella lettura divorando la storia che si lascia leggere e si concretizza in splendidi disegni. La storia è un sunto grafico della ormai plurinarrata vicenda della banda della magliana ed è scritta con gran cura, seguendo molto da vicino il modello di De Cataldo, che forse è quello più riuscito. I dialoghi sono concisi e si inseriscono in piccoli baloon stilizzati che, a mio parere, danno il senso della grettezza dei rapporti tra i personaggi, degli istinti non controllati, della voglia di avere tutto e subito. La sceneggiatura è stata adattata al formato del fumetto, il ritmo è incalzante e non trova spazi vuoti, sa far buon uso delle immagini cercando una narrazione concreta, diretta, molto simile a quella televisiva.

Il fumetto può essere considerato la dimostrazione che, in Italia, c’è gente che sa scrivere belle storie e che ce ne è altrettanta che disegna splendidamente; che per fortuna ci sono comics di questo genere e che ci sono case editrici come la Becco Giallo che intuiscono in queste un valore da offrire al pubblico. Si, perché quello che propone la piccola casa editrice di Ponte di Piave (TV) ai lettori è una collana di cronaca nera all’italiana a fumetti, progetto che, per il mercato italiano, è davvero aria fresca.

Seguirò da vicino le proposte della Becco Giallo, dopo essere stato convinto dalla bella storia della Banda della magliana, che mischia maestrie di sceneggiatura e di illustrazione. Che altro scrivere? Un complimento agli autori e alla casa editrice, sperando di scrivere altro ancora e sperando di leggere altre belle storie.

venerdì 7 dicembre 2007

Leggere rende liberi, dicono


Sto leggendo e scrivendo tanto di questi tempi, ho il comodino che tracima libri. Non è un vanto, anzi, è un problema. Ogni santa mattina suona la sveglia e, cercandola nel buio, puntualmente butto giù le instabili torri di libri. Ciò comporta il risveglio più o meno brusco della mia gatta (Neve), che comincia a passeggiarmi sulla schiena (pesa quasi otto chili, per intenderci), e poi, infine, obbliga i miei genitori a fare irruzione nella stanza sbandierando la classica frase “tanto sarà sveglio, ha suonato la sveglia”. No, dormo.

La morale di questa piccola e striminzita storiella? Leggere fa male, quindi non leggete. E non date retta a manifestazioni di questo genere, sono baggianate, kermesse per topi di biblioteca, un po’ calvi e magari, qualcuno di questi, affetti da alitosi acuta. Leggere è una grande perdita di tempo, obbliga a star fermo per chissà quanto tempo seguendo storie riassunte in frasi, ellissi narrative, chiose drammatiche e varie forme retoriche spruzzate qua e là. Richiede al lettore di crearsi nella mente mondi fantastici, volti immaginari e situazioni che, dall’astrattezza delle parole, si tramutano in immagini concrete. Tutta ‘sta roba dentro il cervello, tutta insieme, pensate che caos.

Leggere rende più liberi, è lo slogan della manifestazione. Forse sarà vero, sta di fatto che io la mattina mi sveglio sempre per colpa dei libri.

venerdì 30 novembre 2007

Stefano Benni e le sue storie


C’è un bel po’ di solitudine nell’ultimo nell’ultimo libro di Stefano Benni, La grammatica di Dio. Il sottotitolo, di fatti, lo esplicita: “storie di solitudine e allegria”. Quando lo scrittore bolognese si mette in testa di voler scrivere dei racconti, allora c’è da aspettarsi grandi cose. Si perché le storie di Benni sono uniche, intrecciano realtà, comicità, surreale, fantasia (tanta e mai scontata) e, in questo ultimo libro, un pizzico di malinconia.

Il libro apre con Boomerang, una storia agrodolce scritta con maestria e freschezza, dall’esilarante finale. Già scorrendo le prime pagine si capisce che strada prenderà il libro, quali temi tratterà, quali sfumature di colore Benni adotterà per dipingerci i suoi pensieri fatti storie. Poi c’è l’Orco, storia dinamica, dalle parole taglienti, fredde come lame; qui c’è un’ironia sibillina, dai denti stretti e dalle labbra livide. Frate zitto è Benni che riflette e che spiega al lettore il titolo del libro, è una perla piccola ma lucente, è un racconto straordinariamente semplice e profondo.

Potrei continuare a scrivere di tutti gli altri racconti. Come avrete capito, il libro mi è piaciuto, è una bella scarica per il mio cervello che lo ha nutrito di nuovi pensieri e di nuove riflessioni. Se ne sentiva il bisogno. La grammatica di Dio è un ritratto dell’uomo, quello d’oggi, quello contemporaneo, denudato da tutta la retorica che lo avvolge e Stefano Benni sa come metterlo alla berlina, sa come farci ridere delle nostre piccolezze. E dopo il sorridere c’è il riflettere. Conoscere il nostro animo sorridendo, questo è Benni. La solitudine del nostro tempo è uno spettro che si aggira tra le nostre vite, che siede sul sedile del passeggero nelle ore trascorse bloccati nel traffico da soli; nei mille e più trilli dei nostri cellulari; che osserva con i suoi occhi spenti il cortocircuito della violenza gratuita; che si annida nelle fitte maglie dell’egoismo. La grammatica di Dio contiene questo e forse altro ancora, tante storie per raccontarne una: la vita; e si sorride come sempre alla vita, non se ne può fare a meno, anche quando le nuvole cercano di oscurare un cielo stellato, dove c’è scritto con parole lievi, a volte incomprensibili, quello che siamo.

mercoledì 28 novembre 2007

Letture sparse


Ci sono sempre, è solo che di questi tempi c'ho le sinapsi intasate e non riesco a scrivere tanto. Vi anticipo che ho finito di leggere già da un pò l'ultimo libro di Stefano Benni e, scanso imprevisti, a breve posterò le mie impressioni.
In questi giorni sto ruminando letture sparse come una mucca svizzera, tranquilla e giuliva, tra le montagne verdi. Anche se la metafora è decisamente strampalata, il concetto dovrebbe passare: salto da un libro all'altro, cercando quello che mi vada a pennello. Ho letto Il visconte dimezzato di Italo Calvino, splendido racconto che, su di una struttura narrativa semplicissima, riesce a concretizzare il concetto di completezza dell'uomo. Davvero bello, se vi capita leggetevelo.
Ho acquistato Cultura convergente di Henry Jenkins, professore americano che con il suo libro cerca di definire l'impatto dei media sulla società. Leggendo l'introduzione dei Wu Ming le tesi esposte dal professore sarebbero aria fresca per l'ambiente italiano, vi farò sapere.
Infine, già da un pò sto girando intorno all'Eleganza del riccio, romanzo scritto dalla francese Muriel Barbery. Se ne parla un gran bene (come direbbe Ligabue intepretato da Neri Marcorè), e più lo guardo e più mi convince. Mi sa che stasera inizio a leggerlo.
Ogni tanto scrivo qualcosa. A parte il romanzo che continua a svilupparsi nella mia capoccia ma che, sfortunatamente, ancora non trova la sua completa realizzazione, ho scritto un paio di storielle, una grottesca l'altra un pò con la puzza sotto il naso. Forse le posterò, ci penserò.

sabato 24 novembre 2007

Il ragazzo con la matita


Avevo poco più di sedici anni, quando lo conobbi la prima volta. Erano i tempi che prendevo ripetizioni da uno studente universitario, più grande di me, che da tempo aveva perso la faccetta carina e sbarbata del liceo. Sulla sua scrivania c’erano cd in disordine, matite azzannate da incisivi nevrotici, polvere stratificata e libri, tanti libri. In quegli anni leggevo molti fumetti anzi, per dirla tutta, la passione per la lettura è nata proprio grazie ai fumetti. Leggevo quantità industriale di comics, variando genere, provenienza geografica, colori, dimensioni e contenuti. La mia testa era pervasa di personaggi manga orientaleggianti o supereroi dai pettorali gonfi come materassini, mi infatuavo per storie sterili, a volte ingenue. Non sapevo che con la china si poteva anche far ridere o addirittura imbarazzare. Era sulla scrivania, tra il disordine post-adolescenziale di colui che mi offriva ripetizioni, un libro dedicato a Andrea Pazienza. Fu come uno shock, una schicchera di elettricità, un calcio sui stinchi da far bestemmiare in aramaico, quando iniziai a sfogliarlo. Le vignette di Paz (spesso si firmava con questo diminutivo) mi stordirono, la sua comicità era tagliente, brandiva colpi di china che abbattevano qualsiasi resistenza alla risata.

Andrea Pazienza è a mio parere il più grande fumettista che il bel paese ha conosciuto. Morto troppo presto per le sue debolezze che paradossalmente sono state il punto di forza delle sue storie disegnate. Nelle sue vicende disegnate c’erano divagazioni intimistiche, elucubrazioni di un ragazzo con tante idee, tanta confusione, tanta gioia: frammenti di un’adolescenza ormai perduta, ma che emerge nei tratti a volte precisi e netti di china, a volte abbozzati e pigri. Paz aveva un gran talento, realizzava tavole di una bellezza rara, lasciava sbalorditi i redattori de Il Male o di Frigidaire. Ma quando era scazzato si limitava a pochi schizzi, segni leggeri, sintetici ed ingenui. La sua era una comicità travolgente che non si limitava alla satira politica, ma ironizzava anche sulla sua generazione, orfana dopo il ’78 di una politica aggregante. La sua comicità non risparmiava nessuno, più volte i piani alti della società italiana si stizzivano e soffiavano mostrando gli artigli della censura.

I personaggi dissacranti Zanardi, Pompeo, Pentotal (nome preso dal farmaco ad azione neurologica) si aggirano in storie assurde, distorte, surreali e crude che Pazienza costruisce con originalità e disposizione sregolata delle vignette. Sono gli ambasciatori del fumettista, calpestano l’immagine di un’Italia vecchia e qualunquista, si riempiono le tasche di nuove istanze, cercano lo scontro generazionale senza risparmiare nessuno. Pazienza è stato cronista grafico degli anni della contestazione, trivellava la società con vignette dissacranti e aveva come sicari personaggi pazzi, cinici e immuni da ogni ipocrisia.

La notte del 16 giugno 1988 Paz se ne andò. Eroina, mostro dalle mille teste che mieteva molte vittime in quegli anni, colpì anche Paz. Si diceva che aveva ripreso a farsi cullare dalle mani gelide di quella maledetta droga. Sono rimaste le sue tavole, i suoi colori, le mille forme che sapeva assumere la sua anima e una risata, profonda, da far scuotere la piccola Italia.

Postilla: c'è un'intervista realizzata da Red Ronnie a Andrea Pazienza nel 1984, è molto particolare, improntata sul cazzeggio ma che con lo scorrere dei minuti mostra la forza e la debolezza del disegnatore. Merita di essere vista.

mercoledì 21 novembre 2007

Parigi e le parole


Le strade enormi e trionfali di Parigi. Un temporale che sta maturando tra le nuvole partorienti. Un cielo blu, profondamente blu: la mia ultima foto che ho della capitale francese. Lo splendido libro di Raymond Queneau che è stato un grande scrittore. Il suo nome è affiancato a grandissime opere letterarie. Non mi va di scrivere sul suo conto, non ce ne è bisogno, e poi non ne ho voglia.

Leggendo Zazie nel metrò, pensavo a Parigi dove, appunto, è ambientato il romanzo. E’ una città splendida, sdrucciolevole socialmente parlando, intimamente controversa, disegnata con linee romantiche e morbide. Ci sono stato due anni fa, durante un lungo viaggio in treno. Non era la meta finale, ma l’epicentro del viaggio lungo il territorio francese. Parigi mi accolse senza taroccamenti turistici, senza alcun sorriso di gomma. Era lei, punto. E’ questo ciò che più apprezzo delle città, ed è questo che ho ritrovato tra le pagine vergate da Queneau. Il poeta francese la dipinge con colori acquerello delicati, ma intensamente surreali; mostra alcuni tratti della città, pochi, ma ben definiti, il resto va completato dal lettore con i suoi ricordi reali o fantastici. Ecco una delle cose più belle che i libri riservano.

Parigi e i suoi ponti. Parigi e le sue nuvole che ora rilasciano milioni di gocce argentate e fredde, alcune di queste gocciolano ticchettando e scivolando lungo le linee morbide e romantiche. Parigi, Zazie e il suo curioso zio. Passeggiando sul Pont Neuf magari si incontrano le parole surreali e vivide di Raymond Queneau, qualcuna rimane imperlata sul cappotto.

Postilla: la foto in alto è stata scattata dal sottoscritto.

mercoledì 14 novembre 2007

Il paese scollacciato di Gerry Bellotto


Ogni testo ha una parola, una soltanto, che lo può sintetizzare. Il termine si impregna di tutte le sensazioni, atmosfere e le sfumature psicologiche del romanzo. In questo caso, riguardo al libro Ti credevo più romantico, la parola che racchiude tutto il romanzo, è scollacciato. Antonio Iovane è l’autore di questa storia tutta italiana e disegna, con grande caratterizzazione, un protagonista magnetico come Gerry Bellotto. Chi è Gerry Bellotto? E’ un comico che plasma il suo estro negli anni ’70, in quegli anni così intensi e controversi in un’Italia a soqquadro e che emerge nei film di serie b, quei film scollacciati, appunto. E’ grazie a quei film ed a quella comicità alla Jerry Lewis che Gerry si farà strada, cercando di smorzare la tensione che funestava la penisola. Sono anni bui quelli, ma Gerry sembra non comprenderli, anzi, ne è del tutto disinteressato. Il susseguirsi della carriera di Gerry sarà un crescendo, toccherà l’apice grazie alla televisione commerciale, al piccolo schermo e all’Imprenditore che spende e spande. Diventa un presentatore, Gerry, fa ridere l’Italia Gerry, fa irruzione con il suo bel sorriso smagliante ed esordisce col suo motto: rilassatevi. Il Gerry Show tiene incollati gli italiani, somministrando nelle menti assopite futilità, dei vuoti a rendere. Ama le donne Gerry, conquista le più belle fino a che non ne è assuefatto. Nello svolgersi della storia i contorni di Gerry Bellotto si definiscono sempre più, le sue azioni che non hanno niente di correct, sono senza alcun filtro. Quando la carriera del comico si incrina, fino a sprofondare in quel buco nero (spaventoso per tutte le celebrità) chiamato dimenticatoio, allora Gerry tenterà l’ulitma chance: barricarsi dentro al Palazzo della televisone.

Durante la lettura, in alcuni momenti, mi sentivo infastidito da quello che Gerry compieva, mi ritenevo scandalizzato, lo ammetto. Ma il volto sotto l’effetto di coca è quello di Gerry e basta. Iovane fa muovere dietro la figura del comico, l’Italia che cambia e che chiede alla sua televisione di fare altrettanto. Ti credevo più romantico non è solo un romanzo, ma una storia sul costume del nostro paese e i suoi personaggi che attraverso la televisione lo rappresentano. Ci sono storie dietro questi personaggi, ci sono le loro vite e le vicissitudini, viziate a volte cupe, ma vere. Antonio Iovane sa dipingere al meglio queste atmosfere, in dei momenti diventano quasi imbarazzanti per la loro nitidezza.

Il romanzo mi ha fatto pensare alla televisione nostrana. Ai suoi volti gommosi, sorridenti, lavagne pronte a cancellarsi ed a ridisegnarsi in nuovi simboli per i telespettatori. C’è chi diceva che la televisione è lo specchio delle società. Mi chiedo, ma qualsiasi mezzo di comunicazione, che si riempie di significati, è lo specchio di una società? Credo di si. Iovane tutto questo lo sa bene, infatti lo romanza. Dà vita ad un personaggio forte, pieno zeppo di carattere come Gerry Bellotto, colonna portante del libro e, sicuramente, che resterà nel mio immaginario insieme alle figure più care incontrate nelle letture. Gerry, con la sua comicità da picchiatello ride, ride sempre nel mostrarci la nostra società, scollacciata.

venerdì 9 novembre 2007

Molto giallo con punte di noir


Una barba lunga, uno sguardo bonario su un viso rubicondo. L’immagine di Gianni Mura si riflette nel suo primo romanzo Giallo su giallo. Mura è uno dei più bravi giornalisti sportivi che c’è in Italia, è lontano dai commenti sgrammaticati e denigratori di molti dei giornalisti televisivi che parlano principalmente, ahimè, solo di pallone. Gianni Mura è un giornalista alla vecchia maniera, che conosce bene il ciclismo, che è innamorato della Francia e del suo tour. Giallo su giallo è un noir sportivo, passatemi l’etichettatura. Il protagonista, manco a farlo a posta, è proprio lui, Gianni Mura. Il giornalista è immischiato in una storia di sangue, inquadrata nella splendida cornice descritta con maestria, della competizione ciclistica, e se la dovrà cavare senza dimenticarsi del suo lavoro: il giornalismo. Il giallo, sciorinato nel susseguirsi delle pagine, a mio parere, passa in secondo piano. Il romanzo è una cronaca puntuale di com’è la vita di un giornalista sportivo durante il Tour de France. Spiega cosa significa seguire giorno dopo giorno il carrozzone che attraversa dei scenari splendidi; ricorda com’era in passato il tour, com’è cambiato, come tutto è diventato più tecnico, organizzato, privo di contrattempi, di imprevisti. E forse, proprio quegli imprevisti e quella umanità, tanto sospirata da Mura, si manifestano negli inspiegabili omicidi, gli unici fattori di destabilizzazione. La cucina poi, l’altra passione di Gianni Mura, è una costante del libro. La descrizione dei piatti, la loro storia, i giusti abbinamenti e la descrizione dei sapori, mi ricordano molto un altro grande giallista ed esperto di cucina che era Manuel Vàzquez Montalbàn. Anch’esso nelle sue storie inseriva contenuti culinari per smorzare la tensione. Se poi ci capite di ciclismo, allora Giallo su giallo deve essere vostro a tutti i costi. Io non ci ho mai trovato nulla di così esaltante in quelle schiene ingobbite che spingono sui pedali, ma leggendo il libro sono rimasto colpito e per di più incuriosito non tanto dalla disciplina, quanto dal tanto materiale umano che ruota attorno questo sport.

L’esordio letterario di Gianni Mura, anche se un esperto di parole come lui proprio non si può chiamare esordiente, passa a pieni voti. Il romanzo è piacevolissimo, scorrevole e per nulla macchinoso. Lo stile giornalistico chiaro ed asciutto del giornalista milanese è l’arma vincente, è ciò che permetterà al lettore di conoscere il ciclismo sotto un’altra luce, molto gialla.

martedì 6 novembre 2007

Il vecchio giornalista


Non so se questo post potrà rendere omaggio ad una figura tanto grande quanto lontana dal mio vivere quotidiano, però ci provo. La scomparsa di Enzo Biagi mi ha colpito. La sua morte mi fa pensare a quei pezzi di storia del nostro paese così importanti, che quasi si danno per scontati. Il giornalismo senza Biagi? Impossibile. Invece, purtroppo, la vita scorre e tutto passa, e così anche un grande giornalista come lui, serio, distaccato ma allo stesso tempo pieno di umanità, se ne và. Io Biagi me lo ricordo per la Storia d’Italia a fumetti, o per le sue trasmissioni serali tranquille, normali, decisamente diverse da quel rumore di fondo che la televisione propone. Enzo Biagi me lo ricordo per i suoi occhiali tondi, un simbolo, il volto sereno e i capelli bianchi, sempre. Me lo ricordo per il triste episodio dell’editto bulgaro, per il suo conseguente allontanamento, per l’ingratitudine di una politica despota e occupatrice della televisione pubblica. Per quella sua ultima intervista splendida, a quel giornalista emergente e con tanto talento che è Saviano: il vecchio e il giovane sembravano sullo schermo.

Non so quanto potranno contribuire queste parole di questo piccolo blog a rendere omaggio ad una delle persone più importanti della storia italiana del ‘900, ma so che quel sorriso che il vecchio giornalista usava per concludere ogni suo intervento in tv, vale per tutte le parole, sempre.

sabato 3 novembre 2007

Periferie precarie

Io sono uno fortunato. Io non vivo in periferia. La mia famiglia può permettersi di sostenermi negli studi; mi lascia pensare, studiare, riflettere. Insomma, il tempo che ho per scrivere questo post è un lusso, lo so. Ma in un futuro prossimo riempirò le file di chi si sostiene con poco e, il mio futuro tenore di vita, avrà poco da darmi. Ecco perché il connubio tra periferia e precariato indicato da Celestini mi ha fatto riflettere, mi ha toccato nel vivo. Seguitemi.

Il termine precario è un calderone che bolle e ribolle, e che emette strani odori differenti, alcuni difficilmente distinguibili. La periferia è lo scenario che accoglie le vite precarie, Roma ne è un esempio. Ascanio Celestini nel suo articolo su l’Internazionale approfondisce con estrema accuratezza, e con una semplicità narrativa esemplare (forse il suo vero pregio), la questione del precariato. Il suo ultimo lavoro è un documentario su questo problema dal nome Parole sante. L’articolo entra in profondità attraverso le storie precarie dei dipendenti dell’Atesia, il più grande call center italiano. L’azienda è tristemente nota come esempio di flessibilità e, di conseguenza, precarietà. L’Atesia sorge in una delle aree periferiche di Roma tra enormi agglomerati come Decathlon, Le Roy Merlin, Ikea e Mondo Convenienza.

La periferia di Roma è pazzesca. E’ un miscuglio di grandi e luminose insegne, di auto imbottigliate, di svincoli e rotatorie appena costruiti, di terra brulla e pilastri che crescono come margherite. Chi vuole acquistare una casa oggi, sa bene che il mercato immobiliare romano oltre il GRA, confine economico della capitale, qualcosa offre, a prezzi relativamente modici. La politica nelle periferie pone la stessa attenzione che al problema del precariato: zero, o quasi. Marco, di 43 anni, soggetto di una delle storie raccontate da Celestini nel suo documentario, scrive questo sulla politica e i suoi attori: "sono completamente separati dalla realtà. Al massimo quelli di sinistra riescono ad interpretarla, ma non la vivono e non la conoscono". Sono d’accordo con Marco, è così. La sinistra di Roma si è rinchiusa nel suo “centro storico”, non ha più nessuna interlocuzione dal basso, si è completamente trasformata in politica intellettuale. Il centro di Roma nido della cultura, seppur caotico, seppur incastrato tra vecchie mura e cantieri aperti, ha mostrato dei progressi. La periferia, invece, sembra una cisti in perenne mutamento.

Qual è la periferia romana? Ogni giorno nasce un nuovo palazzo, un nuovo centro commerciale. Ogni santo giorno si alzano da terra strutture mastodontiche costruite con il sudore e spesso il sangue, degli operai, magari per loro fossero precari! I romeni, ma in generale tutti i clandestini, servono a questo: a riempire le file di quegli operai che in nero costruiscono enormi strutture luminose e pesanti. E il precario, quello si in regola, ma con uno stipendio da fame, compra i prodotti a basso costo in quei centri commerciali. Come scrive Celestini: “il pensiero che fa pensare al panino da 50 centesimi come un’opportunità e invece è una galera”.

L’Ikea e la sua convenienza, i suoi mobili a poco, a niente, è un affare. Scrive Celestini:

La simbiosi tra il mobile componibile pensato in Svezia e costruito in Cina a basso costo e l’operatore a cui hanno fatto credere di aver raggiunto un traguardo acquistando una nuova libreria con il basso stipendio consentito dal suo lavoro quasi cinese.

Cosa me ne farò di una libreria a poco prezzo se non potrò mai riempirla di libri?

domenica 28 ottobre 2007

L'America di oggi raccontata dal passato


L’America alla fine del ‘700 da una parte, e ciò che è oggi l’America, nel ventunesimo secolo, dall’altra. Leggendo Manituana dei Wu Ming non potevo fare a meno di pensare a questo confronto, le due facce dell’America: quello che poteva essere, quello che è diventata. Nelle righe ripensavo a quei boschi, a quelle valli, quegli odori, suoni, quei sguardi indiani che diventavano sempre più opachi. L’America è sempre stata così lontano dalle menti europee che, per nascere, fondava la sua esistenza su questa differenza; una costola della vecchia Europa che ha dato vita ad altro. Oggi degli europei scrivono dell’America che stava nascendo, delle sue violenze, delle sue guerre e di nuovo si conferma la regola: la vecchia Europa da quando si rese conto di non essere più il centro del mondo decise di ricordare, l’America di fare. L’America oggi, che è brillantemente descritta dalle parole del conte Warwick, aristocratico inglese, stanco e annoiato dal formalismo e dalla staticità di un Inghilterra si potente, ma anche tristemente assopita, che accoglie i delegati indiani a Londra venuti a cospetto di Giorgio III.

“In effetti ho riflettuto a lungo su cosa voglia dire essere aristocratico […] sono giunto alla conclusione che significhi avere qualcuno disposto a prendersi le colpe al posto nostro. Per comprovare questa teoria, l’altro giorno ho sonoramente scoreggiato in salotto, alla presenza di ben tre dei miei servi. Ebbene, non solo hanno fatto finta di non sentire, ma quando ho accusato con veemenza uno di loro, non ha battuto ciglio e si è lasciato infliggere la punizione con l’aria più contrita del mondo. Ecco, essere aristocratici significa agire nella piena impunità, a dispetto di ogni evidenza”.
Ecco l’America oggi, stanca ed impunita. Se l’Europa ormai da secoli ha perso il suo smalto, e se l’America anche si sta sfaldando come si sfaldava il potere inglese alla fine del settecento, chi si eleverà a figura dominante? Gli occhi puntano dritti ad oriente.

E poi gli indiani. Questa decadenza europea che colonizzò l’America alla inglese, alla Commonwealth, si sentirono traditi, si sentirono dalla parta sbagliata della storia, come scrivono i Wu Ming nel loro sito che promuove il romanzo. Le Sei Nazioni si sbriciolano sotto i colpi di una guerra che li considera come semplici ostacoli che interferiscono, soggetti scomodi da eliminare, nella bagarre tra vecchia Europa e nuova America. Il tomahawk torna a vibrare per combattere l’ultima guerra. L'indiano Philip Lacroix, figura coriacea invigorita da quel suo nome, Grand Diable, che si porta dietro ammirazione e mistero. Joseph Brant, capo in un momento difficile, costretto ad intepretare la guerra come mai avrebbe voluto. Queste sono le impressioni più vive ed immediate che i personaggi di Manituana mi hanno trasmesso.

Il romanzo dei Wu Ming è intenso, ma alcuni punti risultano troppo macchinosi. E questa sua complessità, che non ho notato in Q, quando il collettivo si chiamava Luther Blissett, rende bassa l’attenzione, disperde un po’ la storia perdendo così di vista la struttura essenziale. Ero curioso di leggere Manituana più che altro perché sono un attento lettore dei romanzi del collettivo sostenitore della causa copy left. Mi aspettavo qualcosa in più.

Non è giudizio negativo, non è neanche un’esaltazione, la mia è una via di mezzo. Questo mi fa pensare. Si perché io mi sento, almeno nei miei pensieri e nelle mie quotidiane contraddizioni, una via di mezzo tra l’Europa e l’America. Stavo notando la mia libreria: leggo tantissima narrativa americana, poca roba europea, un bel po’ d’italiana. Perché? Forse perché adoro la fantasia americana libera dalla storia, libera da ogni radice che, se ci dà la nostra coscienza quotidiana, spesso frena anche i nostri pensieri e le nostre analisi. E poi mi sento consapevole, allo stesso tempo, di essere quello che sono perché proprio quelle mie radici me lo ricordano.

Per farsi breve, i Wu Ming raccontano e fanno pensare, e pure tanto, questa è la loro arma vincente, il loro punto di forza. Il sito di Manituana offre approfondimenti, coinvolgimenti, sviluppi costanti della storia. I lettori contribusicono a modellare quello che i Wu Ming hanno tracciato, si sente partecipi di un'opera corale. Il collettivo è capace di stimolare il dibattito grazie anche alla sua intensa attività di dialogo con i lettori. Credo e spero che questo post sia una prova evidente. Il mio giudizio resta in bilico, oscilla, muta ogni istante. Pensandoci bene, questo libro non merita un giudizio, ma solo dei pensieri.

domenica 21 ottobre 2007

I Patassa son tanti, milioni di milioni

Il Patassa, un lungagnone romano. Capelli a parte ha per la testa sempre qualcosa, diciamo che la sua natura è quella di Piranesi, raccoglie frammenti, li mette insieme e ne tira fuori qualcosa di nuovo, originale, impensato. Io sono il nuovo frammento. Come l’ho conosciuto? Beh, bisognerebbe chiedere a nonno Luigi che faceva il contadino si sposò due volte ebbe figli quinquaginta et quinquaginta… vabbè, tirandola corta, per uno di quegli strani incroci generazionali è il figlio di un mio cugino che potrebbe essere mio padre. Non ho mai detto che fosse facile, i Patassini sono secondi solo ai Buendìa e la nostra Macondo si chiama Casaroscia. E come per i Buendìa pare che le generazioni passino, le città cambino ma certi tratti di famiglia restino. Se a lui piace disegnare io faccio l’architetto, scriviamo e leggiamo, capelli ne ho più io, naso uguale. Ci somigliamo insomma, o almeno ci piace pensarlo.

Ad Henry si ricorre per un drink, appena entrati. E a lui ci si affida per una cena raffinata, servita in maniera discreta e ineccepibile. La sua figura magra, quasi ascetica nei suoi sessanta ben portati, accompagna poi silenziosa l’inizio dell’interrogatorio dell’ospite della serata, scandito dalla domanda di rito “Come giustifica la sua esistenza, Mr….?”. Almeno fino a quando non gli viene richiesto di intervenire per sciogliere un enigma che l’ospite offre più o meno consapevolmente durante la conversazione. Questa la ritualità di ogni riunione dei Vedovi Neri, che si riuniscono ogni mese nella saletta privata di un ristorante, ogni volta con un ospite diverso che dovrà sottostare a tre condizioni: rispondere all’interrogatorio rivoltogli dai membri del club, mantenere il più stretto riserbo e il non essere donna. Henry è il cameriere, unico testimone, insieme al lettore, delle riunioni del club e membro effettivo per meriti acquisiti sul campo. Naturalmente, Isaac Asimov.
Nessun cadavere, nessuna concessione sanguinolenta, nessuna analisi di laboratorio, nessuna azione concitata. Anzi, unità di tempo e di azione del teatro classico: tutto comincia e termina, deve terminare, nel volgere di una cena e di una conversazione brillante. Asimov concede ai membri del club e ad Henry un ascolto attento e la possibilità di formulare domande all’ospite. Sufficienti però a stimolare la conversazione: gusto della parola, curiosità, ironia con cui i Vedovi neri, guidati da Henry, arrivano a riconoscere i dettagli determinanti nei racconti e ricostruire gradualmente uno scenario in cui i fatti raccontati possano tornare al loro posto secondo una normale successione di causa e effetto. Che si tratti di un caso di spionaggio o di un furto misterioso. Un metodo che S. Holmes riassumerebbe con una sua massima, “Quando si esclude l’impossibile, tutto il resto, per quanto improbabile, deve essere la verità”. Da Conan Doyle arriva il meccanismo a orologeria del giallo deduttivo, anche se Asimov si riferisce più a Poirot quando racconta la nascita del primo dei racconti dei Vedovi Neri, richiesto e pubblicato dalla Ellery Queen’s Mistery Magazine. Asimov invita il lettore a seguire Henry nel suo scartare la conclusione più ovvia e allargare gli orizzonti, concedere libertà al pensiero per esplorare la realtà senza pregiudizio, nel senso di giudicare prima. La logica non come limite ma come verifica, la prova del nove. Onesto intellettualmente nel non nascondere nessuno dei fili da riannodare, Asimov concede il piacere del gioco sottile, della sfida ad Henry a risolvere per primi l’enigma.

Paolo è un mio ospite molto gradito, ogni tanto pubblicherà sul blog qualche sua impressione su quello che legge. E' uno in gamba, si capisce. E poi pensare a Casaroscia come una Macondo patassiniana, è una gran bella cosa. Fategli i dovuti benevenuti, se li merita.

martedì 16 ottobre 2007

Piccole, impercettibili follie


Questa è una storia vera. Io ci aggiungerò un pizzico di fiction, ma giusto una puntina tanto per assaporare. Siamo a Florence, nello stato dell'Oregon, una delle tante città americane che prendono il nome da quelle italiane. Amanda Lee McDaniel si prepara per uscire dalla sua abitazione, è nervosa, particolarmente nervosa. I vicini infastidiscono il suo umore, quelli lei non li hai mai sopportati. Chiude il gas Amanda, prende la borsa, il cellulare e gli occhiali da sole, non manca niente.
No, qualcosa manca. Le chiavi di casa. Amanda le cerca, prima nel salottino, poi passa nella camera da letto, rovista nel letto disfatto, posa gli occhi sul comodino cercando quel mazzo di chiavi, ma niente, non ci sono. Passa in rassegna il suo angolo cucina, il nervosimo comincia a salire, i nervi affiorano. Butta giù qualcosa, maledice tutto e tutti, quelle cazzo di chiavi non spuntano fuori.
Allora è lì, in quel preciso momento che un dubbio la assale, trasformandosi in certezza: le chiavi le hanno rubate i vicini. Amanda diventa una furia, esce di casa con gli occhi iniettati di sangue si dirige con passo veloce verso la porta dei vicini. Prende a bussare, poi a calciare ed infine a spallare la porta in legno gonfio d'umidità. Entra in casa urlando a squarciagola e le sue parole sono troncate dalla rabbia. I vicini di Amanda, una coppia di mezza età, non riescono subito a focalizzare la situazione, sono disorientati: non capita tutti i giorni di vedersi una pazza dentro casa pronta a distruggere tutto quello che trova. Si, perchè Amanda sta letteralmente rasando al suolo l'abitazione dei vicini. Spacca la vetrina di una piccola credenza, prende a calci un vaso, butta per terra gingilletti vari, rompe i vetri di un quadro ed infine, prende a cazzotti la foto di matrimonio della coppia bastarda, infame e maledetta.
Amanda manda a fanculo il suo vicino di casa, spingendolo via mentre si dirige verso la cucina. Il padrone di casa prova a bloccarla, ma quella è una furia, una scheggia impazzita e si libera subito della presa, riprendendo la sua corsa inarrestabile verso la cucina. Amanda prende dell'alcol per le pulizie e lo sparge sui mobili, sulla macchina del gas, sulle finestre, dappertutto. Poi accende un cerino e lascia che le fiamme s’impossessino della cucina; il fuoco s'accende in un attimo. I vicini escono fuori di casa imprecando, lAmanda, invece, passa per la cucina scavalcando una piccola staccionata.
Della casa, non resterà niente, i pompieri non riusciranno a spegnere l'incendio in tempo. Quando è arrivato il ragazzo di Amanda che era già circondata dai poliziotti, lei ha spiegato tutto, ha detto che quegli stronzi dei vicini le avevano sottratto le chiavi di casa, che quello era uno scherzo che andava punito. Ma il ragazzo ha subito notato le chiavi di casa attaccate alla cintura di Amanda; lei, incredula ha guardato le chiavi ciondolare lungo i suoi fianchi, poi ha riposto il volto tra le mani tremanti e ha cominciato a piangere e singhiozzare.

La storia è tratta da un piccolo articolo pubblicato sulla rubrica Storie vere, dell'Internazionale n.714.

domenica 14 ottobre 2007

Le parole


...Le mie parole son capriole
palle di neve al sole
razzi incandescenti prima di scoppiare
sono giocattoli e zanzare, sabbia da ammucchiare
piccoli divieti a cui disobbedire
sono andate a dormire sorprese da un dolore profondo
che non mi riesce di spiegare...
Le parole qui sopra riportate sono di Samuele Bersani, uno che con le parole e la musica ci sa fare veramente. Riporto questa parte della sua canzone Le mie parole per introdurre l'inusuale episodio al quale il sottoscritto ha assistito. Sabato scorso mi sono diretto verso l'Auditorium per acquistare i biglietti del concerto di Morgan. Chi mi conosce sa che io e l'automobile non abbiamo un ottimo rapporto, e sopratutto sabato pomeriggio non era il momento migliore per una passeggiata in macchina, considerando la manifestazione che imperversava il centro di Roma. Quindi ho fatto il mio bel biglietto e ho preso la metropolitana. Arrivato a Termini c'era il panico: gruppuscoli di manifestanti/turisti che sbandierando il vessillo di An fotografano la città; turisti incuriositi ma allo stesso tempo preoccupati di non poter dirigersi verso il colosseo, visto il caos; conducenti degli autobus visibilmente irritati per l'ennesima manifestazione, per l'ennesimo disagio alla viabilità, per l'ennesimo passeggero (il sottoscritto) che ha chiesto gentilmente dove poter trovare la fermata del bus M, visto che quella di Termini era stata soppressa. Il dipendente dell'Atac mi ha fatto un sorriso apparentemente bonario, perchè nelle parti basse era in atto un giramento di coglioni pari a quello di un'elica. Alza un pò le spalle, allarga le mani a mò di santo e fa echeggiare un "boh" sconfortante.
Mi rigiro un pò per la stazione, cercando qualche indizio. Un cartello attaccato con lo scotch, informa che la fermata del bus M e di altre trenta linee è stata spostata 400 metri dopo Piazza della Repubblica. Quindi, taglio il corteo di An, qualcuno stonava l'inno di Mameli, mentre altri tipi salutavano i turisti con il saluto romano. Passo per Piazza della Repubblica, raggiungo la via indicata e mi trovo una fila senza fine di autobus. Tutti di servizio, ma maledettamente bloccati per via del traffico. Cerco tra questi quello che mi serve, non c'è (ti pareva?). Nell'attesa mi appoggio alla balaustra che si affaccia su un antico chiostro, davvero molto bello. Altri passeggeri come me, di tutte le razze e religioni, si dimenano alla ricerca del loro sospirato autobus; un signore dell'atac con una cartellina in mano, fa il possibile per soddisfare tutte le richieste. Gli si avvicina una signora, credo del sud america, non parla un granchè italiano, chiede di un autobus, il tipo ci pensa, controlla la cartellina, poi indica la via della fermata. Quella non capisce, allora lui inizia una serie contorsioni, sbracciandosi, indicando, emettendo strani versi, che altro non erano che un miscuglio di romanesco e inglese, sembrava Alberto Sordi nel fim Un americano a Roma, "o'right, o'right, attento a destra ce sta er fosso de la Maranella, capito americà?".
Alla fine, la signora, rispondendo con una serie di passi di danza, intuisce dove poter trovare l'autobus, fa un mezzo inchino completato con un sinuoso movimento di fianchi, e saluta l'informatore atac. Quello sorride, mi guarda, si rigira un pò la cartellina e mi fa, "aoh, ma te non ce lo sapevi un pò di inglese?", lo guardo un pò imbarazzato, gli rispondo con un timido si. Lui si mette a ridere, "beh, allora me potevi dà una mano, io cò 'ste parole inglesi mica me la cavo tanto bene", e sbuffando si immerge nella folla di anziani inviperiti contro tutto e tutti.
Quando poi una signora si avvicina e mi chiede di poterle leggere i numeri degli autobus sul cartellone della fermata, mi metto accanto a lei, aiutato da un rumeno, e iniziamo ad elencarle tutte le fermate.

giovedì 11 ottobre 2007

E' per questo che scrivo


Questo è il primo post che scrivo senza dargli subito un titolo. Di solito, quando sto per aggiornare il blog, ho già in testa un titolo, stavolta no. Sto continuando a scrivere la sera, quando ho più tempo. Non riesco a trovare la costanza, quindi capita che per giorni il romanzo (chiamiamolo così...) resti in sospeso. Il personaggio principale sta assumendo una sua vera indentità, credo che abbia già la forza di uscire dalle righe ed entrare nell'immaginario. Adesso, per di più, ha avuto un primo contatto con il suo mentore, raffigurato nella foto; sarà questo a dare uno slancio, decisamente surreale alla storia.
Negli ultimi tempi ho ricevuto apprezzamenti per Ore piccole, raccolta di racconti scritta nell'inverno di questo anno. Ogni volta che ricevo dei commenti positivi un pò mi imbarazzo, e poi, in un secondo momento, affiora la solita maledetta domanda: "ma sarò bravo a scrivere?". Io non lo so se sono bravo a scrivere, se riesco, ogni volta, ad esprimermi correttamente o a far vivere l'emozione della storia che sto scrivendo a chi (poveretta/o) leggerà le mie parole. Questa insicurezza mi lascia sempre con un punto interrogativo enorme che non riesco a scacciare. Però di una cosa sono certo, da quando ho iniziato a scrivere, non sono più riuscito a smettere. Scrivere è una gran bella cosa e credo che aiuti molti a conoscersi; forse, prima ancora di far leggere delle storie alla gente, chi scrive vuole raccontarsele per sè, meravigliarsi del racconto prodotto dal cervello e sognare un pò ad occhi aperti. Forse è per questo che scrivo, e sicuramente questa frase è il titolo del post.

lunedì 8 ottobre 2007

Intimi pensieri


Mi sono addentrato nel libro dei Wu Ming, Manituana, quindi per un po’ ne avrò di che leggere. Era da tempo che attendeva nello scaffale di “quelli da leggere”, e non poteva più essere ignorato. Anche se ho captato giudizi altalenanti, naturalmente non voglio sbilanciarmi in nessun tipo di valutazione o critica, per adesso non mi sta dispiacendo.

Invece, ecco di che cosa voglio scrivere su ‘sto post oggi, c’è un libro che merita attenzione. La vergogna delle scarpe nuove, di Paolo Nori, è un libro particolarissimo. Questo libro l’ho scovato su Anobii, spulciando nelle librerie virtuali altrui, il titolo mi aveva incuriosito e per mia ignoranza di Paolo Nori non sapevo nulla. Il libro può essere considerato un filmato amatoriale di vita reale, frammenti di vissuto trasformati in parole. E’ soprattutto lo stile utilizzato da Paolo Nori ad avermi trasmesso questa sensazione: pochissima punteggiatura, flussi di pensieri che si susseguono senza pause, senza logiche narrative, ed infine, intimistiche impressioni, così personali che a volte ci si sente in imbarazzo. Si entra nella vita reale di uno scrittore, traduttore di romanzi russi e tutto viene rappresentato grazie ai pensieri di chi scrive, forse, vero attore protagonista. Un rapporto di coppia che non funziona più, una figlia che non sta bene, la tensione crescente nei tragitti andata e ritorno in bicicletta, da casa all’ospedale. Parma, che in fondo è meglio di Bologna.

Per descrivere sinteticamente il romanzo bastano le parole di Paolo Nori:

“questo libro racconta una fine, e si legge in due ore”.

Sottolineo la particolarità del testo, non vi aspettate niente di tradizionale; non è facile comprendere subito una punteggiatura minimalista e tempi a volte troncati, proprio come accade nell’elaborazione continua di pensieri. Ma non è detto che un libro debba sempre rispettare certi canoni per essere apprezzato. Quello di Paolo Nori a me ha ricordato molto l’intimità narrativa di Svevo, nel suo capolavoro La coscienza di Zeno. Anche ne La vergogna delle scarpe nuove c’è la conflittualità dell’io, le convinzioni, le insicurezze, i dubbi che affollano la mente, le decisioni e le conseguenze, tutti aspetti che caratterizzano i nostri pensieri ogni giorno.

giovedì 4 ottobre 2007

Remare in un mare di legno


Sareste capaci remare in un mare di legno? Si, di legno. Niente acqua, troppo facile, qui si parla di legno come materia solida. Naturalmente la prima risposta che si darebbe, affidandosi alla logica, alla ragione, è un perentorio no. Leggendo il libro di Jonathan Carroll, terminata l'ultima pagina, ho ripensato alla domanda scritta qui sopra, e la risposta è stata tutt'altro che no. Il mare di legno è un romanzo che mischia surrealismo con quotidianità, riflessioni profonde, direi filosofiche, con momenti di narrativa veloce e piacevole.
Leggendolo mi sono immerso nella provincia americana, quella tranquilla in questo caso, niente scintille di violenza e razzismo strisciante raccontate dalla provincia di Lansdale, quella del sud. Crane's View è una piccola cittadina assopita, tra i soliti personaggi di paese c'è anche il capo della polizia Francis McCabe, è lui che riceverà la visita di un cane ridotto male, con tre zampe, un aspetto orribile e che, poco dopo, gli morirà nel suo ufficio. Il cane verrà seppelito da Francis ma il cadavere sembra non voglia rimanere nella sua fossa... Il capo della polizia McCabe si addentra in una storia piena di stravanganze e, ad aiutarlo, non sarà da solo, ma i suoi io del passato torneranno per ricodargli chi era e chi è adesso. La sensazione di imbarazzo o di biasimo che si prova sfogliando le vecchie foto che testimoniano chi eravamo, è descritta benissimo da Carroll.
Ecco, come si può immaginare la fantasia si intreccia con la realtà, e questa sarà una costante del libro di Carroll. Ciò che più mi ha stupito è che le cose strane, quelle che interferiscono con la realtà di Francis McCabe, mai si rivelano fuori posto, insomma, il romanzo è scandito dal reale e surreale che convivono in perfetta armonia, si pensa addirittura che non sia per nulla impossibile spiccare il volo da una cappotta di una macchina, anzi, è la cosa più facile del mondo. Dopo aver letto questo libro, fatevi questa domanda "saprei remare in un mare di legno?", la vostra risposta sarà "probabilmente si".

lunedì 1 ottobre 2007

Quando un libro è una sopresa


Le mie letture estive, come ho già scritto un pò di post fa, sono state quasi tutte piacevole, alcune direi addirittura formative (Don De Lillo in primis); comunque, sta di fatto che quest'estate ho pescato dei bei libri. Tra questi devo annoverare una vera e propria sopresa, il libro scritto da Marco Amato, Una bomba la cantagiro.
Che roba è? Io ne sapevo meno di voi fino a che non mi è capitata sotto al naso la recensione del suo romanzo su Nandropausa, un bel contenitore di letture selezionate e consigliate dai Wu Ming. Di solito, se si ha giù un pizzico di empatia con il collettivo, non si rimane mai delusi dalle loro proposte. Nel numero di luglio c'era anche Una bomba al cantagiro. Lo ammetto, la prima cosa che mi ha stuzzicato è stata la copertina, grafica essenziale, messaggio chiarissimo. Ma poi naturalmente la recensione mi ha convinto a leggerlo. E quindi eccomi seduto sul balcone, con i piedi sulla ringhiera a gustarmi questo romanzo.
Una bomba al cantagiro è ambientato nell'Italia del 1969, dove la contrapposizione tra un periodo di benessere e serenità, con la fine degli anni del boom economico, rappresentato perfettamente dal carozzone del Cantagiro, e le rivendicazioni sociali con annesse tensioni crescenti, spesso sfociate in atti di violenza come l'esplosioni di bombe, fa da cornice al romanzo. Io, nato nel 1982, naturalmente del Cantagiro ne sapevo poco, anzi nulla. Era una competizione canora itinerante che animava le estati italiane con i più importanti cantanti nostrani. Marco Amato dipinge con un tono grottesco, quasi dissacrante, lo spettacolo, e riassume tutto questo nella figura di Ricky Danesi. A mio parere un personaggio a tutto tondo, esilarante, uno di quei personaggi che mi rimarrà in testa. Danesi è un cantante cascato nel dimenticatoio, uno di quelli che è riuscito a ritagliarsi uno spazio nel periodo di benessere e serenità cantando una canzone mediocre che dura un'estate e che poi si dimentica. L'eccentricità di Ricky Danesi è ben bilanciata con la dedizione al lavoro e la fede nello stato, del cellerino, promosso agli uffici affari riservati, Pino Abbrescia. Due personaggi notevolmente diversi che però hanno un interesse comune, la musica.
La storia è ben riuscita, è avvolgente, dinamica, senza zone grigie. Interessante poi la struttura narrativa, dove si alternano narrazioni in prima persona, a ritagli d'articoli dell'epoca, a rapporti informativi della polizia, ad estratti di bibliografia.
Una bomba al cantagiro di Marco Amato è una lettura che consiglio vivamente, oltre che ad essere piacevole e divertente ha una chiave d'interpretazione originale di quegli anni, tanto calcalti da quella narrativa impegnata e pesante di sinistra che mai ha trovato il giusto equilibrio tra fiction e impegno.
Non voglio spingermi oltre, comunque, se vi capita di adocchiare il libro non lasciatevelo sfuggire, vi perdereste una bella sorpresa.

martedì 25 settembre 2007

Perchè non pesi niente

I Marta sui tubi sono la dimostrazione che in Italia c'è gente che sa fare musica e scrivere testi senza usare la classica rima cuore-amore. Sono siciliani ma vivono a Bologna, scrivono nella loro mini biografia:
La Sicilia e Marta avevano bisogno di essere lasciate da sole. Ottobre 2002: iniziamo a suonare a Bologna. Vino, chitarra, peperoncino, patate, carta e penna. Via del Pratello sembra un villaggio turistico per anime allo scarrozzo. Se dormi troppo rischi di risvegliarti punkabbestia. Ci tiene svegli la voglia di meritarci un vestito da festa per le nostre canzoni nude.
Dal vivo non ho avuto ancora il piacere di ascoltarli (dicono che siano dei mostri di bravura), ma il loro disco C'è gente che deve dormire l'ho consumato. I testi, apparantemente sconnessi, si devono rielaborare nella scatola cranica; ogni tanti mi capita di ripetere qualche passaggio di Perchè non pesi niente, affiora nella mente, senza alcun motivo. Il disco la prima che lo ho ascoltato mi ha lasciato perplesso. Non riuscivo a mettere in ordine le canzoni, dargli un senso. Ma riascoltandolo ho iniziato a comprendere che, se volevo capirci qualcosa, dovevo lasciarmi andare, non irrigidirmi nell'assenza di formalismi. Se li vuoi ascoltare devi mettere da parte il classico schema della canzone italiana.
Qui sopra vi ho postato il video di questa canzone. Il paese diroccato è Poggioreale, nel Belice, distrutto dal terremoto del 1968. Prego, deliziatevi di buona musica.

lunedì 24 settembre 2007

Vite avvitate


Questi giorni ho preso parecchio la metro. Era da un pò che mi cullavo dalle mie parti, spostandomi a piedi, raggiungendo luoghi in poco tempo. Ma una strattonata, che mai ti aspetti, altrimenti non sarebbe una strattonata, più un cazzotto o che ne so uno schiaffo; dicevo, una strattonata ha svegliato le mie ansie da tempo acquietate sotto l'ombra della mia tranquillità. E vaffanculo al mondo, mi dicevo, dirigendomi al Policlinico.
Mio nonno poteva andarsene, ma invece è rimasto qui. La sua vita è saldata fuoco, non riesci mica a cacciarla via. Mio nonno è forte, ecco cosa ho pensato quando lo visto sdraiato sotto una foresta di tubi e quel pigolio, fastidiosissimo, dei macchinari che mi dava alla testa.
Quando tornavo a casa, immergendomi nella moltitudine sudata dei vagoni della metro, mi chiedevo quanto una vita può essere avvitata.
Scendendo con la voce registrata che diceva "...an Paolo, next stop Marconi", mi sono convinto che mica si sa quanti giri di cacciavite ci hanno dato, mica lo si può sapere.

domenica 16 settembre 2007

L'albero delle bottiglie


- Quel palo con le bottiglie. Che cazzo è? Roba decorativa?
- E' una di quelle stronzate mojo. Ti protegge dagli spiriti malvagi. Dice che gli spiriti entrano nelle bottiglie e ci restano intrappolati. O forse entrano e vengono sputati fuori trasformati in una roba innocua. Non so di preciso. Ricordo di averli visti qualche volta da bambino.
Hap e Leonard, la coppia noir ideata da Lansdale, in Mucho Mojo scoprono uno scheletro di bambini sotto la casa dello zio defunto di Leonard. Il sud degli Stati Uniti accoglie la storia, ci ficca dentro, spietatamente, tante delle sue contraddizioni. E su una in particolare Lansale sembra soffermarsi, quella del razzismo. E' una costante dei romanzi dello scrittore americano che, per chi ha già letto qualcosa, o diventa teme centrale, costantemente stimolante o, altrimenti, genera noia. Io sono per la seconda considerazione.
Mucho Mojo è un libro pieno zeppo di fiction (in positivo, per capirci, quella fiction bella, coinvolgente, non pensate a cose tipo Gente di mare ecco), una sorta di vhs simpatico che può riempire un sabato sera moscio, ma nulla più. La blogosfera e in generale l'ambiente della rete, aspettava con ansia la ristampa di questo libro considerato come uno dei migliore di Lansdale. A mio parere siamo lontani da quella splendita e avvincente storia che è In fondo alla palude. L'intreccio in Mucho Mojo è scontato, a tal punto che a metà romanzo si può individuare senza alcuna difficoltà il colpevole, e poter tirare le somme per un finale che, non a caso, si rivela tale. Insomma, da questo libro mi aspettavo di più. Un aspetto che mi ha incuriosito è quello del albero delle bottiglie. Interessante perchè tempo fa, bazzicando per le gallerie fotografiche di Repubblica, mi ero soffermato su quella dei viaggi sulla Route 66, e mi ero scaricato la foto qui pubblicata. Una foto curiosa, però incomprensibile. Lansdale ha svelato l'arcano.

martedì 11 settembre 2007

Angelo della Nebbia


Come scrivevo tempo fa, sto continuando a buttar giù una storia. Qualcosa di buono sta nascendo, alcuni personaggi stanno per diventare grandi, autonomi, e da quel momento in poi tutto sarà un pò più facile. E si perchè quando un personaggio, attraverso le parole, inizia a prendere forma, concretizza il suo carattere, sa, finalmente affrontare con le sue scelte (e non di chi scrive) il corso degli eventi, allora tutto è più facile. La storia prende vita.
Angelo della nebbia. Sono bastate queste tre parole, sottratte senza grosse premure ad una splendida canzone di Ligabue, per dar vita ad un personaggio che avrà un peso non indifferente nella storia. E' con queste parole che Ettore si è svelato; è ascoltando quella canzone che Ettore ha fatto capolino nel mio cervelletto.
Non voglio dirvi molto, anche perchè, probabilmente, non ve ne frega niente; ma vi assicuro che è una bella soddisfazione veder crescere un proprio personaggio, inserirlo nel contesto narrativo pensato e ripensato tante volte e poi esclamare "sto tipo ci sta proprio bene qui!". Chissà cosa farà Ettore? Per adesso mi basta sapere che c'è.