venerdì 30 novembre 2007

Stefano Benni e le sue storie


C’è un bel po’ di solitudine nell’ultimo nell’ultimo libro di Stefano Benni, La grammatica di Dio. Il sottotitolo, di fatti, lo esplicita: “storie di solitudine e allegria”. Quando lo scrittore bolognese si mette in testa di voler scrivere dei racconti, allora c’è da aspettarsi grandi cose. Si perché le storie di Benni sono uniche, intrecciano realtà, comicità, surreale, fantasia (tanta e mai scontata) e, in questo ultimo libro, un pizzico di malinconia.

Il libro apre con Boomerang, una storia agrodolce scritta con maestria e freschezza, dall’esilarante finale. Già scorrendo le prime pagine si capisce che strada prenderà il libro, quali temi tratterà, quali sfumature di colore Benni adotterà per dipingerci i suoi pensieri fatti storie. Poi c’è l’Orco, storia dinamica, dalle parole taglienti, fredde come lame; qui c’è un’ironia sibillina, dai denti stretti e dalle labbra livide. Frate zitto è Benni che riflette e che spiega al lettore il titolo del libro, è una perla piccola ma lucente, è un racconto straordinariamente semplice e profondo.

Potrei continuare a scrivere di tutti gli altri racconti. Come avrete capito, il libro mi è piaciuto, è una bella scarica per il mio cervello che lo ha nutrito di nuovi pensieri e di nuove riflessioni. Se ne sentiva il bisogno. La grammatica di Dio è un ritratto dell’uomo, quello d’oggi, quello contemporaneo, denudato da tutta la retorica che lo avvolge e Stefano Benni sa come metterlo alla berlina, sa come farci ridere delle nostre piccolezze. E dopo il sorridere c’è il riflettere. Conoscere il nostro animo sorridendo, questo è Benni. La solitudine del nostro tempo è uno spettro che si aggira tra le nostre vite, che siede sul sedile del passeggero nelle ore trascorse bloccati nel traffico da soli; nei mille e più trilli dei nostri cellulari; che osserva con i suoi occhi spenti il cortocircuito della violenza gratuita; che si annida nelle fitte maglie dell’egoismo. La grammatica di Dio contiene questo e forse altro ancora, tante storie per raccontarne una: la vita; e si sorride come sempre alla vita, non se ne può fare a meno, anche quando le nuvole cercano di oscurare un cielo stellato, dove c’è scritto con parole lievi, a volte incomprensibili, quello che siamo.

mercoledì 28 novembre 2007

Letture sparse


Ci sono sempre, è solo che di questi tempi c'ho le sinapsi intasate e non riesco a scrivere tanto. Vi anticipo che ho finito di leggere già da un pò l'ultimo libro di Stefano Benni e, scanso imprevisti, a breve posterò le mie impressioni.
In questi giorni sto ruminando letture sparse come una mucca svizzera, tranquilla e giuliva, tra le montagne verdi. Anche se la metafora è decisamente strampalata, il concetto dovrebbe passare: salto da un libro all'altro, cercando quello che mi vada a pennello. Ho letto Il visconte dimezzato di Italo Calvino, splendido racconto che, su di una struttura narrativa semplicissima, riesce a concretizzare il concetto di completezza dell'uomo. Davvero bello, se vi capita leggetevelo.
Ho acquistato Cultura convergente di Henry Jenkins, professore americano che con il suo libro cerca di definire l'impatto dei media sulla società. Leggendo l'introduzione dei Wu Ming le tesi esposte dal professore sarebbero aria fresca per l'ambiente italiano, vi farò sapere.
Infine, già da un pò sto girando intorno all'Eleganza del riccio, romanzo scritto dalla francese Muriel Barbery. Se ne parla un gran bene (come direbbe Ligabue intepretato da Neri Marcorè), e più lo guardo e più mi convince. Mi sa che stasera inizio a leggerlo.
Ogni tanto scrivo qualcosa. A parte il romanzo che continua a svilupparsi nella mia capoccia ma che, sfortunatamente, ancora non trova la sua completa realizzazione, ho scritto un paio di storielle, una grottesca l'altra un pò con la puzza sotto il naso. Forse le posterò, ci penserò.

sabato 24 novembre 2007

Il ragazzo con la matita


Avevo poco più di sedici anni, quando lo conobbi la prima volta. Erano i tempi che prendevo ripetizioni da uno studente universitario, più grande di me, che da tempo aveva perso la faccetta carina e sbarbata del liceo. Sulla sua scrivania c’erano cd in disordine, matite azzannate da incisivi nevrotici, polvere stratificata e libri, tanti libri. In quegli anni leggevo molti fumetti anzi, per dirla tutta, la passione per la lettura è nata proprio grazie ai fumetti. Leggevo quantità industriale di comics, variando genere, provenienza geografica, colori, dimensioni e contenuti. La mia testa era pervasa di personaggi manga orientaleggianti o supereroi dai pettorali gonfi come materassini, mi infatuavo per storie sterili, a volte ingenue. Non sapevo che con la china si poteva anche far ridere o addirittura imbarazzare. Era sulla scrivania, tra il disordine post-adolescenziale di colui che mi offriva ripetizioni, un libro dedicato a Andrea Pazienza. Fu come uno shock, una schicchera di elettricità, un calcio sui stinchi da far bestemmiare in aramaico, quando iniziai a sfogliarlo. Le vignette di Paz (spesso si firmava con questo diminutivo) mi stordirono, la sua comicità era tagliente, brandiva colpi di china che abbattevano qualsiasi resistenza alla risata.

Andrea Pazienza è a mio parere il più grande fumettista che il bel paese ha conosciuto. Morto troppo presto per le sue debolezze che paradossalmente sono state il punto di forza delle sue storie disegnate. Nelle sue vicende disegnate c’erano divagazioni intimistiche, elucubrazioni di un ragazzo con tante idee, tanta confusione, tanta gioia: frammenti di un’adolescenza ormai perduta, ma che emerge nei tratti a volte precisi e netti di china, a volte abbozzati e pigri. Paz aveva un gran talento, realizzava tavole di una bellezza rara, lasciava sbalorditi i redattori de Il Male o di Frigidaire. Ma quando era scazzato si limitava a pochi schizzi, segni leggeri, sintetici ed ingenui. La sua era una comicità travolgente che non si limitava alla satira politica, ma ironizzava anche sulla sua generazione, orfana dopo il ’78 di una politica aggregante. La sua comicità non risparmiava nessuno, più volte i piani alti della società italiana si stizzivano e soffiavano mostrando gli artigli della censura.

I personaggi dissacranti Zanardi, Pompeo, Pentotal (nome preso dal farmaco ad azione neurologica) si aggirano in storie assurde, distorte, surreali e crude che Pazienza costruisce con originalità e disposizione sregolata delle vignette. Sono gli ambasciatori del fumettista, calpestano l’immagine di un’Italia vecchia e qualunquista, si riempiono le tasche di nuove istanze, cercano lo scontro generazionale senza risparmiare nessuno. Pazienza è stato cronista grafico degli anni della contestazione, trivellava la società con vignette dissacranti e aveva come sicari personaggi pazzi, cinici e immuni da ogni ipocrisia.

La notte del 16 giugno 1988 Paz se ne andò. Eroina, mostro dalle mille teste che mieteva molte vittime in quegli anni, colpì anche Paz. Si diceva che aveva ripreso a farsi cullare dalle mani gelide di quella maledetta droga. Sono rimaste le sue tavole, i suoi colori, le mille forme che sapeva assumere la sua anima e una risata, profonda, da far scuotere la piccola Italia.

Postilla: c'è un'intervista realizzata da Red Ronnie a Andrea Pazienza nel 1984, è molto particolare, improntata sul cazzeggio ma che con lo scorrere dei minuti mostra la forza e la debolezza del disegnatore. Merita di essere vista.

mercoledì 21 novembre 2007

Parigi e le parole


Le strade enormi e trionfali di Parigi. Un temporale che sta maturando tra le nuvole partorienti. Un cielo blu, profondamente blu: la mia ultima foto che ho della capitale francese. Lo splendido libro di Raymond Queneau che è stato un grande scrittore. Il suo nome è affiancato a grandissime opere letterarie. Non mi va di scrivere sul suo conto, non ce ne è bisogno, e poi non ne ho voglia.

Leggendo Zazie nel metrò, pensavo a Parigi dove, appunto, è ambientato il romanzo. E’ una città splendida, sdrucciolevole socialmente parlando, intimamente controversa, disegnata con linee romantiche e morbide. Ci sono stato due anni fa, durante un lungo viaggio in treno. Non era la meta finale, ma l’epicentro del viaggio lungo il territorio francese. Parigi mi accolse senza taroccamenti turistici, senza alcun sorriso di gomma. Era lei, punto. E’ questo ciò che più apprezzo delle città, ed è questo che ho ritrovato tra le pagine vergate da Queneau. Il poeta francese la dipinge con colori acquerello delicati, ma intensamente surreali; mostra alcuni tratti della città, pochi, ma ben definiti, il resto va completato dal lettore con i suoi ricordi reali o fantastici. Ecco una delle cose più belle che i libri riservano.

Parigi e i suoi ponti. Parigi e le sue nuvole che ora rilasciano milioni di gocce argentate e fredde, alcune di queste gocciolano ticchettando e scivolando lungo le linee morbide e romantiche. Parigi, Zazie e il suo curioso zio. Passeggiando sul Pont Neuf magari si incontrano le parole surreali e vivide di Raymond Queneau, qualcuna rimane imperlata sul cappotto.

Postilla: la foto in alto è stata scattata dal sottoscritto.

mercoledì 14 novembre 2007

Il paese scollacciato di Gerry Bellotto


Ogni testo ha una parola, una soltanto, che lo può sintetizzare. Il termine si impregna di tutte le sensazioni, atmosfere e le sfumature psicologiche del romanzo. In questo caso, riguardo al libro Ti credevo più romantico, la parola che racchiude tutto il romanzo, è scollacciato. Antonio Iovane è l’autore di questa storia tutta italiana e disegna, con grande caratterizzazione, un protagonista magnetico come Gerry Bellotto. Chi è Gerry Bellotto? E’ un comico che plasma il suo estro negli anni ’70, in quegli anni così intensi e controversi in un’Italia a soqquadro e che emerge nei film di serie b, quei film scollacciati, appunto. E’ grazie a quei film ed a quella comicità alla Jerry Lewis che Gerry si farà strada, cercando di smorzare la tensione che funestava la penisola. Sono anni bui quelli, ma Gerry sembra non comprenderli, anzi, ne è del tutto disinteressato. Il susseguirsi della carriera di Gerry sarà un crescendo, toccherà l’apice grazie alla televisione commerciale, al piccolo schermo e all’Imprenditore che spende e spande. Diventa un presentatore, Gerry, fa ridere l’Italia Gerry, fa irruzione con il suo bel sorriso smagliante ed esordisce col suo motto: rilassatevi. Il Gerry Show tiene incollati gli italiani, somministrando nelle menti assopite futilità, dei vuoti a rendere. Ama le donne Gerry, conquista le più belle fino a che non ne è assuefatto. Nello svolgersi della storia i contorni di Gerry Bellotto si definiscono sempre più, le sue azioni che non hanno niente di correct, sono senza alcun filtro. Quando la carriera del comico si incrina, fino a sprofondare in quel buco nero (spaventoso per tutte le celebrità) chiamato dimenticatoio, allora Gerry tenterà l’ulitma chance: barricarsi dentro al Palazzo della televisone.

Durante la lettura, in alcuni momenti, mi sentivo infastidito da quello che Gerry compieva, mi ritenevo scandalizzato, lo ammetto. Ma il volto sotto l’effetto di coca è quello di Gerry e basta. Iovane fa muovere dietro la figura del comico, l’Italia che cambia e che chiede alla sua televisione di fare altrettanto. Ti credevo più romantico non è solo un romanzo, ma una storia sul costume del nostro paese e i suoi personaggi che attraverso la televisione lo rappresentano. Ci sono storie dietro questi personaggi, ci sono le loro vite e le vicissitudini, viziate a volte cupe, ma vere. Antonio Iovane sa dipingere al meglio queste atmosfere, in dei momenti diventano quasi imbarazzanti per la loro nitidezza.

Il romanzo mi ha fatto pensare alla televisione nostrana. Ai suoi volti gommosi, sorridenti, lavagne pronte a cancellarsi ed a ridisegnarsi in nuovi simboli per i telespettatori. C’è chi diceva che la televisione è lo specchio delle società. Mi chiedo, ma qualsiasi mezzo di comunicazione, che si riempie di significati, è lo specchio di una società? Credo di si. Iovane tutto questo lo sa bene, infatti lo romanza. Dà vita ad un personaggio forte, pieno zeppo di carattere come Gerry Bellotto, colonna portante del libro e, sicuramente, che resterà nel mio immaginario insieme alle figure più care incontrate nelle letture. Gerry, con la sua comicità da picchiatello ride, ride sempre nel mostrarci la nostra società, scollacciata.

venerdì 9 novembre 2007

Molto giallo con punte di noir


Una barba lunga, uno sguardo bonario su un viso rubicondo. L’immagine di Gianni Mura si riflette nel suo primo romanzo Giallo su giallo. Mura è uno dei più bravi giornalisti sportivi che c’è in Italia, è lontano dai commenti sgrammaticati e denigratori di molti dei giornalisti televisivi che parlano principalmente, ahimè, solo di pallone. Gianni Mura è un giornalista alla vecchia maniera, che conosce bene il ciclismo, che è innamorato della Francia e del suo tour. Giallo su giallo è un noir sportivo, passatemi l’etichettatura. Il protagonista, manco a farlo a posta, è proprio lui, Gianni Mura. Il giornalista è immischiato in una storia di sangue, inquadrata nella splendida cornice descritta con maestria, della competizione ciclistica, e se la dovrà cavare senza dimenticarsi del suo lavoro: il giornalismo. Il giallo, sciorinato nel susseguirsi delle pagine, a mio parere, passa in secondo piano. Il romanzo è una cronaca puntuale di com’è la vita di un giornalista sportivo durante il Tour de France. Spiega cosa significa seguire giorno dopo giorno il carrozzone che attraversa dei scenari splendidi; ricorda com’era in passato il tour, com’è cambiato, come tutto è diventato più tecnico, organizzato, privo di contrattempi, di imprevisti. E forse, proprio quegli imprevisti e quella umanità, tanto sospirata da Mura, si manifestano negli inspiegabili omicidi, gli unici fattori di destabilizzazione. La cucina poi, l’altra passione di Gianni Mura, è una costante del libro. La descrizione dei piatti, la loro storia, i giusti abbinamenti e la descrizione dei sapori, mi ricordano molto un altro grande giallista ed esperto di cucina che era Manuel Vàzquez Montalbàn. Anch’esso nelle sue storie inseriva contenuti culinari per smorzare la tensione. Se poi ci capite di ciclismo, allora Giallo su giallo deve essere vostro a tutti i costi. Io non ci ho mai trovato nulla di così esaltante in quelle schiene ingobbite che spingono sui pedali, ma leggendo il libro sono rimasto colpito e per di più incuriosito non tanto dalla disciplina, quanto dal tanto materiale umano che ruota attorno questo sport.

L’esordio letterario di Gianni Mura, anche se un esperto di parole come lui proprio non si può chiamare esordiente, passa a pieni voti. Il romanzo è piacevolissimo, scorrevole e per nulla macchinoso. Lo stile giornalistico chiaro ed asciutto del giornalista milanese è l’arma vincente, è ciò che permetterà al lettore di conoscere il ciclismo sotto un’altra luce, molto gialla.

martedì 6 novembre 2007

Il vecchio giornalista


Non so se questo post potrà rendere omaggio ad una figura tanto grande quanto lontana dal mio vivere quotidiano, però ci provo. La scomparsa di Enzo Biagi mi ha colpito. La sua morte mi fa pensare a quei pezzi di storia del nostro paese così importanti, che quasi si danno per scontati. Il giornalismo senza Biagi? Impossibile. Invece, purtroppo, la vita scorre e tutto passa, e così anche un grande giornalista come lui, serio, distaccato ma allo stesso tempo pieno di umanità, se ne và. Io Biagi me lo ricordo per la Storia d’Italia a fumetti, o per le sue trasmissioni serali tranquille, normali, decisamente diverse da quel rumore di fondo che la televisione propone. Enzo Biagi me lo ricordo per i suoi occhiali tondi, un simbolo, il volto sereno e i capelli bianchi, sempre. Me lo ricordo per il triste episodio dell’editto bulgaro, per il suo conseguente allontanamento, per l’ingratitudine di una politica despota e occupatrice della televisione pubblica. Per quella sua ultima intervista splendida, a quel giornalista emergente e con tanto talento che è Saviano: il vecchio e il giovane sembravano sullo schermo.

Non so quanto potranno contribuire queste parole di questo piccolo blog a rendere omaggio ad una delle persone più importanti della storia italiana del ‘900, ma so che quel sorriso che il vecchio giornalista usava per concludere ogni suo intervento in tv, vale per tutte le parole, sempre.

sabato 3 novembre 2007

Periferie precarie

Io sono uno fortunato. Io non vivo in periferia. La mia famiglia può permettersi di sostenermi negli studi; mi lascia pensare, studiare, riflettere. Insomma, il tempo che ho per scrivere questo post è un lusso, lo so. Ma in un futuro prossimo riempirò le file di chi si sostiene con poco e, il mio futuro tenore di vita, avrà poco da darmi. Ecco perché il connubio tra periferia e precariato indicato da Celestini mi ha fatto riflettere, mi ha toccato nel vivo. Seguitemi.

Il termine precario è un calderone che bolle e ribolle, e che emette strani odori differenti, alcuni difficilmente distinguibili. La periferia è lo scenario che accoglie le vite precarie, Roma ne è un esempio. Ascanio Celestini nel suo articolo su l’Internazionale approfondisce con estrema accuratezza, e con una semplicità narrativa esemplare (forse il suo vero pregio), la questione del precariato. Il suo ultimo lavoro è un documentario su questo problema dal nome Parole sante. L’articolo entra in profondità attraverso le storie precarie dei dipendenti dell’Atesia, il più grande call center italiano. L’azienda è tristemente nota come esempio di flessibilità e, di conseguenza, precarietà. L’Atesia sorge in una delle aree periferiche di Roma tra enormi agglomerati come Decathlon, Le Roy Merlin, Ikea e Mondo Convenienza.

La periferia di Roma è pazzesca. E’ un miscuglio di grandi e luminose insegne, di auto imbottigliate, di svincoli e rotatorie appena costruiti, di terra brulla e pilastri che crescono come margherite. Chi vuole acquistare una casa oggi, sa bene che il mercato immobiliare romano oltre il GRA, confine economico della capitale, qualcosa offre, a prezzi relativamente modici. La politica nelle periferie pone la stessa attenzione che al problema del precariato: zero, o quasi. Marco, di 43 anni, soggetto di una delle storie raccontate da Celestini nel suo documentario, scrive questo sulla politica e i suoi attori: "sono completamente separati dalla realtà. Al massimo quelli di sinistra riescono ad interpretarla, ma non la vivono e non la conoscono". Sono d’accordo con Marco, è così. La sinistra di Roma si è rinchiusa nel suo “centro storico”, non ha più nessuna interlocuzione dal basso, si è completamente trasformata in politica intellettuale. Il centro di Roma nido della cultura, seppur caotico, seppur incastrato tra vecchie mura e cantieri aperti, ha mostrato dei progressi. La periferia, invece, sembra una cisti in perenne mutamento.

Qual è la periferia romana? Ogni giorno nasce un nuovo palazzo, un nuovo centro commerciale. Ogni santo giorno si alzano da terra strutture mastodontiche costruite con il sudore e spesso il sangue, degli operai, magari per loro fossero precari! I romeni, ma in generale tutti i clandestini, servono a questo: a riempire le file di quegli operai che in nero costruiscono enormi strutture luminose e pesanti. E il precario, quello si in regola, ma con uno stipendio da fame, compra i prodotti a basso costo in quei centri commerciali. Come scrive Celestini: “il pensiero che fa pensare al panino da 50 centesimi come un’opportunità e invece è una galera”.

L’Ikea e la sua convenienza, i suoi mobili a poco, a niente, è un affare. Scrive Celestini:

La simbiosi tra il mobile componibile pensato in Svezia e costruito in Cina a basso costo e l’operatore a cui hanno fatto credere di aver raggiunto un traguardo acquistando una nuova libreria con il basso stipendio consentito dal suo lavoro quasi cinese.

Cosa me ne farò di una libreria a poco prezzo se non potrò mai riempirla di libri?