mercoledì 27 febbraio 2008

Sesso, droga e violenza: vi presento il blog


Gira in rete questo video riportato sui blog di Luca Sofri e su quello di Giovanni Boccia Artieri, è un frammento di una delle puntate di Porta a Porta dedicate alla morte della studentessa inglese Meredith. Sono minuti di pura televisione generalista di stampo vespiano. Si parla dei blog come uno strumento demoniaco e si intorta il tutto con parole che scuotono gli animi del pubblico di seconda serata come “prostituzione”, “promiscuità”, “doppie vite”, “visibilità”. E i luoghi comuni escono da sotto le poltroncine bianche degli ospiti per invadere lo schermo. Il blog per gli opinionisti in studio si limita ad essere una delle pagine buie dell’assassinio della giovane inglese, e serve per costruire un’atmosfera inquietante legittimata dalla facile associazione “giovani, droga, sesso e violenza”. Il pubblico a casa è rassicurato. In fondo ciò che Bruno Vespa offre sono solo certezze. Rai Uno ha come target di riferimento un pubblico anziano e poco acculturato, cresciuto ed educato ad un tipo di comunicazione unidirezionale che non permette il confronto e l’approfondimento. Piovono dall’alto considerazioni, il pubblico passivamente le metabolizza senza poterle né rielaborare, né tanto meno riformularle.

Hanno paura, ecco tutto. Quel gruppo di cinquantenni ha paura perché non sanno come affrontare la comunicazione bidirezionale che la rete offre e di conseguenza demonizzano il fenomeno Internet. Non è un caso che tra gli opinionisti non c’era neanche un rappresentate dei giovani, neanche un bellimbusto costruito su immagine e somiglianza dei “giovani di oggi” a dimostrare le loro tesi. No, c’erano sono “adulti” profondamente disorientati per come i mezzi di comunicazione stanno cambiando: rischiano di perdere il treno loro, o forse lo hanno già perso da tempo. Non c’è nessun commento del pubblico alle loro considerazioni, non c’è partecipazione, non c’è lo scambio di idee che Internet offre. I blog servono solo a quei ragazzi che non riescono ad andare in un reality, ecco il sunto della trasmissione.

Così si rischia di banalizzare il tutto, di allontanare la dimensione partecipativa della rete da quella generalista della televisione. Mentre in altri paesi si sta cercando un punto d’incontro tra questi due ambienti, di costruire un ponte che permetta alla stessa televisione di rigenerarsi e di riposizionarsi nella mente degli spettatori, in Italia vige lo stato di puro pregiudizio, il video è una triste conferma.

lunedì 25 febbraio 2008

Presto su celluloide


Girovagando per la rete ho scoperto che lo straordinario romanzo di Yates, Revolutionary Road, diventerà un film, o meglio, la mutazione da parole in immagini è già avvenuta, ma dovremo attendere per il natale prossimo. Ad interpretare i Wheeler ci saranno Leonardo Di Caprio e Kate Winselt, la regia è affidata a Sam Mendes (American beauty), in America sembra esserci una certa attesa dovuta anche alla riscoperta di una colonna portante della letteratura americana contemporanea come Richard Yates dimostra nel romanzo.
Altra trasposizione da carta a celluloide è invece il nostrano Come dio comanda, del patinato Niccolò Ammaniti, su cui piovono ultimamente un certo numero di critiche (ma si sa, quando uno scrittore vende più del solito i critici devono storcere il naso: gli è dovuto). Diretto dal grande Salvatores, nel parco attori spiccano due nomi, quello di Filippo Timi (sto leggendo il suo libro, E lasciamole cadere queste stelle) ed Elio Germano, due attori che fanno ben sperare per il futuro del cinema italiano. Sul libro, che ha vinto il Premio Strega 2007, posso dirvi che, rispetto a Ti prendo e ti porta via e Io non ho paura, c’è qualcosa in meno, cosa non saprei dirvelo, per ora.
Infine, per quanto riguarda le mie storie, posso annunciarvi che ieri ho terminato il primo racconto di una raccolta che vorrei proporvi sul blog, tempo permettendo, dal titolo 9 modi per dire amore. Tranquilli, non c’è alcuna influenza mocciana. Vi farò sapere.

sabato 23 febbraio 2008

Annuncio musicale #1


Loro sono gli Amari. Testi introspettivi, musiche elettroniche miste ad arpeggi cantauotorali. C'è una nostalgia anni '80 sia nel suono che nel modo di proporsi al pubblico. Atmosfere tinte dai suoni un pò freddi delle prime console dalle grafiche seghettate. Curiosità: nel video di Le gite fuori porta c'è il mitico Frankie come maestro di danze.

mercoledì 20 febbraio 2008

A casa dei Wheeler


Le staccionate bianche circoscrivono case a due piani schierate su una stessa fila dritta, imperterrita. In ogni casa una famiglia, in ogni famiglia, un padre ed una madre e dei figli. America dei primi anni sessanta, periferia residenziale di New York, i Wheeler vivono qui, precisamente in Revolutionary Road. Un prato all’inglese, un’auto dal cofano luccicante e bombato parcheggiata sul viale, eccolo lì Frank Wheeler a scavare nel giardino per costruire una scalinata in pietra. Avril Wheeler, la moglie, è in casa a sorseggiare una limonata ghiacciata, i figli a giocare sotto un sole estivo. A loro, ai Wheeler, l’America non piace, odiano l’omologazione, l’ipocrisia che sostiene il quieto vivere dei sobborghi newyorkesi; loro, i Wheeler, cercano altro e sognano l’Europa, la sua storia, le sue radici, così lontana da quelle case tutte terribilmente uguali. Negli anni sessanta gli europei sognavano gli Stati Uniti che si trovavano dall’altra parte della luna, Richard Yates invece, nel suo splendido romanzo Revolutionary Road, racconta di una coppia logorata dall’America che tenta di abbattere le mura consolidate e asfissianti di una società omologante, almeno dal loro punto di vista.

Da una crisi di coppia, descritta da Yates con sfumature psicologiche esemplari, nasce l’idea dei Wheeler di trasferirsi in Francia, a Parigi. Via, lontano dagli sguardi indesiderati dei vicini, lontani dalle serate con i Campbell, i vicini che abitano a Revolutionary Hill, dove le accuse alla società si condensano nel salone e lì restano, quasi dovessero placare gli animi torbidi ma non curarli. Ma Frank col tempo sente che quella nuova energia tra lui e la moglie, infondo, è qualcosa di artificiale, che, infondo, fuggire da quell’America che gli stava offrendo un lavoro migliore, un mercato vivo e proficuo capace di elevarlo nella scala sociale tanto disprezzata, era assurdo, inutile. E poi c’è la terza, non desiderata, gravidanza. Yates incrina con estrema lentezza l’immutabile, all’apparenza, stato di relazioni dei personaggi, colora con estrema cura per i particolari le diverse forme che la psiche di questi assume. Tutto sembra statico, immobile, ma nel profondo degli animi c’è una torbidità palpabile che incide nella storia a tal punto da esplodere nelle pagine conclusive. Revolutionary Road è un libro di un'intensità rara, che lascia un sapore amarognolo, un retrogusto acidulo, ma è grazie alla sua asprezza che alcune immagini del romanzo sono ancora impresse nella mia mente.

Il libro l’ho scoperto grazie al portentoso Anobii, sito dove si possono creare e condividere le proprie librerie. Esplorando gli scaffali degli altri utenti sono riuscito a scovare, per puro caso, Richard Yates, ed eccomi qui a scriverne un personalissimo commento. Tutto ciò è portentoso, non posso fare a meno di stupirmene.

martedì 12 febbraio 2008

Ancora sui giovani


Sui giovani ha scritto anche Umberto Galimberti. Un libro dal titolo L’ospite inquietante e dal sottotitolo, leggermente più piccolo ma decisamente più incisivo delle parole che lo sovrastano, “il nichilismo e i giovani”. Galimberti, filosofo della psicologia, più volte invitato in dibattiti televisivi dove il suo pensiero si affievoliva e risultava utile a guarnire il ciarlare ispessito da cerone dei personaggi delle tv, in questo libro offre la sua visione sui giovani, un’analisi forte, disfattista, che lascia l’amaro in bocca. Insomma, sui giovani si spara a zero, senza pietà, indicando le loro debolezze, aridità, assenza di valori, insensibilità e quant’altro; c’è del vero, non posso negarlo, ma tutto sembra analizzato dall’alto verso il basso, standosene sul solito gradino generazionale. Potrei dividere il libro in due parti, la prima un po’ grossolana, perché impostata su considerazioni, a mio parere, insicure; una seconda parte, invece, basata su dati empirici che concretizzano il pensiero di Galimberti. Ad esempio, ciò che non mi ha convinto sta nel capitolo “La pubblicizzazione dell’intimità”, perché la partecipazione in audience dei giovani ai reality non è denigrante, e non è la prova che questa generazione è malata, ma semplicemente la dimostrazione che la televisione offre spettacoli decisamente scadenti che tutti, ma dico tutti, fruiscono. La spettacolarizzazione dell’intimità dei giovani, alimentata e distorta dai media, è un problema riscontrabile nella diseducazione ad un uso consapevole dei mezzi di comunicazione e non nella semplice criminalizzazione. Il video-bullismo è un fenomeno che trova vigore nella sua divulgazione scellerata da parte dei media, non è il sintomo di una generazione falsata, sono vigliaccate che ora divengono cronachetta in pasto alle scalette singhiozzanti dei telegiornali; pubblicizzare la propria intimità, non è solo il voler scandalizzare, acciuffare una visibilità facile, ma una ricerca (nel modo sbagliato, intendiamoci) di una propria coscienza nel freddo occhio di un videofonino. Sono d’accordo con Galimberti quando riesce a far emergere questa sua interpretazione nel libro: lo spaesamento generazionale, che anch’io sento, si manifesta in diverse forme, anche quella della codificazione in pixel del proprio vuoto. Conferma di tutto ciò è il capitolo dedicato ai ragazzi che lanciarono i sassi dai cavalcavia, una fotografia nitida del vuoto straziante che annulla ogni riferimento con la realtà. Ora, giunti a queste conclusioni (discutibili), cosa fare? Perché a sparare c’è tempo e munizioni a volontà, a sfornare ritratti sul malessere ci sono titoloni da Vespa o scoop strabilianti da Mentana, ma resta il fatto che nessuno sembra davvero interessarsi dei giovani.

Il nostro è un paese chiuso, sigillato, che sta sprofondando in forme di ghettizzazione sconcertanti. Sui giovani, purtroppo, si ripercuotono buona parte di questa sedentarietà culturale. Chiedo a gran voce un supporto positivo alla causa giovanile, mandano a quel paese le cosiddette frasi fatte, i borbottii generazionale, i rigurgiti del passato (che è passato). Alzati classe culturale, svegliati dal coma profondo, non lasciare che l’Italia sguazzi nelle contorsioni psichiche di Olindo Romano e Rosa Brazzi esaltate dai media, nelle soap-noir dei telegiornali, nei sorrisi candidi del prime time. Apri uno spiraglio, una breccia alle giovani sinapsi, qualcosa deve pur cambiare.

Postilla: il libro mi è piaciuto perchè ha lasciato spazio a miei riflessioni, mostrando una struttura critica elastica lontana da quelle considerazioni granitiche scritte da penne stizzose incuranti di chi leggerà il libro. Insomma, Galimberti lancia una provocazione che merita di essere raccolta e sopratutto approfondita.

giovedì 7 febbraio 2008

La consapevolezza di essere giovane


Eccomi lì, nella foto, in alto a sinistra a formare la squadra di calcio per il torneo del campeggio. Dodici anni o poco più, testa arruffata da capelli stoppacciosi e un mucchietto di lentiggini concentrate sul naso e gli zigomi. L’estate nella mia infanzia significa il Gargano, prendere i bagagli, attaccare al sedere dell’auto il carrello-tenda e scivolare lungo l’Italia insieme ai miei genitori e dirigermi verso il tacco rivolto ad Oriente. L’infanzia svaniva a dodici anni, il corpo celava i cambiamenti veri e propri, li accudiva nel suo profondo aspettando il momento migliore per poi scatenarsi in brufoli e dolori alle ossa. L’estate, superata la sua magia del gioco, del secchiello e della paletta, era dedicata ad osservare l’altro sesso che ora sembrava assumere un ruolo diverso, ancora poco chiaro. L’estate in campeggio significava cercarsi, come ogni estate del resto, di costruirsi una comitiva a tempo determinato, con la scadenza improrogabile. La fragilità di un dodicenne che assaporava il mondo ad un passo più in là dell’ombra dei genitori, si mischiava con le altre fragilità preadolescienziali, dai diversi accenti, dalle differenti storie, tutte lì, concentrate in uno spazio circoscritto e dedicato alle attività vacanziere. Così mi ritrovavo in difesa, perché i piedi non erano buoni (come del resto non lo sono ancora oggi) a giocare per una squadra formata da ragazzini di tutta Italia, pronti a sfidare i ragazzini del posto che avevano l’arduo compito di difendere la rispettabilità del luogo facendosi carico di tutto il campanilismo possibile. Noi dodicenni scorrazzavamo per quel campetto polveroso, ognuno con la sua maglia di appartenenza, ognuno di noi ostentando una sfacciataggine maledettamente falsa, quella che doveva essere la sicurezza del sentirsi adulti che noi ci limitavamo ad abbozzare. Invaghiti per qualche ragazzina che, ridendosela con le sua amiche, osservava il pallone passare di piede in piede, accennando qualche saluto, ma solo di rado ed esclusivamente a chi davvero se lo meritava. I genitori poi, quelli si concentravano su delle panche sbilenche, parlottando dei loro inverni, della loro quotidianità come a volerla esorcizzare almeno per quelle due settimane.

Perché scrivo tutto questo vi chiederete? Perché Paolo Cognetti con il suo splendido Una cosa piccola che sta per esplodere, nel raccontare le storie di quelle infanzie ormai sciolte dallo scaldarsi dell’adolescenza, mi ha fatto ricordare di come io vissi quegli anni. E’ un libro travolgente condensato in una scrittura intensa, mai banale, ricercata ed attenta nel far emergere quelle sensazioni sottilissime che l’adolescenza riserva. Paolo Cognetti si è rivelato un caso, almeno per quanto mi riguarda. Nel suo libro c’è il senso della fragilità degli anni tormentati, maledettamente difficili, quando un ragazzino fa la muta e lascia in un angolo l’innocenza dell’infanzia, mostrando la sua nuova pelle già scalfita dalla crudezza del mondo. E’ un libro che merita di essere letto quello di Cognetti, perché si concentra su un lasso di tempo troppe volte male interpretato, troppe volte stucchevolmente standardizzato e, soprattutto, troppe volte preda degli intenti commerciali, capaci di bombardare un’età fragilissima quasi completamente priva di sostegni propri. I personaggi che Paolo Cognetti mette in scena sono tutti alla ricerca di qualcosa, sono eroi narrativi a caccia di una ricompensa per le prove che affrontano; in questo caso, ciò che cercano è una loro completezza, una loro definizione. E non la cercano negli adulti, no, quelli sono gli ultimi a cui chiederla, al massimo possono rapportarsi a questi nascondendosi dietro a quelle standardizzazioni comportamentali che la società, e quindi gli adulti, esige per sentirsi convinti che tutto giri secondo il loro intento. I ragazzini di Cognetti aiutano gli adulti, cercano di comprendere le loro scelte incomprensibili per la loro età, accudiscono i loro animi corrotti dal tempo, si lasciano trasportare dal tempo seguendo quella maturità biologica che non li porterà alla completezza tanto sospirata, ma sono coscienti di questo al contrario della cecità mostrata dai “grandi”.

L’ultima sera al campeggio prima di ritornare nelle vostre rispettive città, tane dell’inverno che verrà, osservate attentamente gli occhi dei dodicenni seduti ai tavolini del bar, se sarete attenti potrete cogliere la loro lucida e malinconica consapevolezza che la prossima estate li riunirà un po’ diversi, un po’ più adulti. E il mare, di onda in onda, modellerà la spiaggia. Sempre.