Ci sono momenti nella giornata durante i quali penso al blog e a quello che potrei scrivere. Affiorano idee, commenti, polemiche e recensioni che si spintonano nei miei pensieri, ognuno vorrebbe essere il primo a trasformarsi in parole. Ma poi le ore scorrono, gli impegni si accatastano tutti dritti dritti sulla mia scrivania ed ecco che le idee volano via, chissà per dove poi. Però qualcosa è rimasto. Ho letto Palomar (il nome al personaggio principale del libro è un chiaro riferimento all'osservatorio astronomico vicino Los Angeles) di Italo Calvino. Da tempo il libro attendeva impaziente sul mio comodino (che sembra un parcheggio di libri mal custodito ), non potevo non notare un evidente strato di polvere spessa e grigiastra concentrata sulla copertina. Leggendolo mi maledicevo: come ho fatto a non leggere questi racconti prima di oggi? Palomar è un libro stracolmo di pensieri, di idee e di riflessioni tendenti verso la “filosofia masticata”. Intendo, per filosofia masticata, quella capacità della filosofia di farsi capire da tutti, e che non sempre viene adottata. La semplicità, a volte, rende tutto molto complesso. Credo che in questo Italo Calvino abbia sempre creduto. Il libro è consigliato, naturalmente; e non posso fare a meno di riportare una mia piccola e modestissima reazione post-lettura.
Come scrive Calvino nella nota marginale, il libro è suddiviso in tre aree tematiche: la prima è dedicata all’esperienza visiva, la seconda approfondisce il tema antropologico e culturale, la terza, infine, tende a caratterizzarsi nel tema della riflessione. E’ la seconda area che ho trovato più interessante, in particolare il racconto in cui il signor Palomar osserva dal suo terrazzo i tetti di Roma. Una particolarissima descrizione di Roma vista dai tetti (sembra quasi un dipinto minuzioso, attento a riportare tutte le linee, le luci e le ombre delle architetture) introduce questa riflessione
:«Nulla di tutto questo può essere visto da chi muove i suoi piedi o le sue ruote sui selciati della città. E, inversamente, di quassù si ha l’impressione che la vera crosta terrestre sia questa, ineguale ma compatta, anche se solcata da fratture non si sa quanto profonde, crepacci o pozzi o crateri, i cui orli in prospettiva appaiono ravvicinati come scaglie di una pigna, e non viene neppure da domandarsi cosa nascondano. Così ragionano gli uccelli, o almeno così ragiona immaginandosi uccello, il signor Palomar. “Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose, conclude, ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile».Insomma, non leggerò mai tutti i libri che la vita mi offre; non conoscerò mai tutte le persone che la terra accoglie; non capirò mai tutte le teorie che i pensatori producono; non saprò amare mai tanto quanto basta; non toccherò mai tutta la superficie del mondo eppure non posso fare a meno di provarci. Io, noi siamo incompleti. Ecco perché rincorriamo perpetuamente la perfezione e non la acciuffiamo mai, ma facendo questo, diamo vita a cose fantastiche ed orribili allo stesso tempo.
«Rileggendo il tutto, m’accorgo che la storia di Palomar si può riassumere in due frasi: “un uomo si mette in marcia per raggiungere, passo a passo, la saggezza. Non è ancora arrivato”».Postilla decisamente personale: ho finito gli esami. Ci tenevo a scriverlo, ohibò.
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