domenica 28 ottobre 2007

L'America di oggi raccontata dal passato


L’America alla fine del ‘700 da una parte, e ciò che è oggi l’America, nel ventunesimo secolo, dall’altra. Leggendo Manituana dei Wu Ming non potevo fare a meno di pensare a questo confronto, le due facce dell’America: quello che poteva essere, quello che è diventata. Nelle righe ripensavo a quei boschi, a quelle valli, quegli odori, suoni, quei sguardi indiani che diventavano sempre più opachi. L’America è sempre stata così lontano dalle menti europee che, per nascere, fondava la sua esistenza su questa differenza; una costola della vecchia Europa che ha dato vita ad altro. Oggi degli europei scrivono dell’America che stava nascendo, delle sue violenze, delle sue guerre e di nuovo si conferma la regola: la vecchia Europa da quando si rese conto di non essere più il centro del mondo decise di ricordare, l’America di fare. L’America oggi, che è brillantemente descritta dalle parole del conte Warwick, aristocratico inglese, stanco e annoiato dal formalismo e dalla staticità di un Inghilterra si potente, ma anche tristemente assopita, che accoglie i delegati indiani a Londra venuti a cospetto di Giorgio III.

“In effetti ho riflettuto a lungo su cosa voglia dire essere aristocratico […] sono giunto alla conclusione che significhi avere qualcuno disposto a prendersi le colpe al posto nostro. Per comprovare questa teoria, l’altro giorno ho sonoramente scoreggiato in salotto, alla presenza di ben tre dei miei servi. Ebbene, non solo hanno fatto finta di non sentire, ma quando ho accusato con veemenza uno di loro, non ha battuto ciglio e si è lasciato infliggere la punizione con l’aria più contrita del mondo. Ecco, essere aristocratici significa agire nella piena impunità, a dispetto di ogni evidenza”.
Ecco l’America oggi, stanca ed impunita. Se l’Europa ormai da secoli ha perso il suo smalto, e se l’America anche si sta sfaldando come si sfaldava il potere inglese alla fine del settecento, chi si eleverà a figura dominante? Gli occhi puntano dritti ad oriente.

E poi gli indiani. Questa decadenza europea che colonizzò l’America alla inglese, alla Commonwealth, si sentirono traditi, si sentirono dalla parta sbagliata della storia, come scrivono i Wu Ming nel loro sito che promuove il romanzo. Le Sei Nazioni si sbriciolano sotto i colpi di una guerra che li considera come semplici ostacoli che interferiscono, soggetti scomodi da eliminare, nella bagarre tra vecchia Europa e nuova America. Il tomahawk torna a vibrare per combattere l’ultima guerra. L'indiano Philip Lacroix, figura coriacea invigorita da quel suo nome, Grand Diable, che si porta dietro ammirazione e mistero. Joseph Brant, capo in un momento difficile, costretto ad intepretare la guerra come mai avrebbe voluto. Queste sono le impressioni più vive ed immediate che i personaggi di Manituana mi hanno trasmesso.

Il romanzo dei Wu Ming è intenso, ma alcuni punti risultano troppo macchinosi. E questa sua complessità, che non ho notato in Q, quando il collettivo si chiamava Luther Blissett, rende bassa l’attenzione, disperde un po’ la storia perdendo così di vista la struttura essenziale. Ero curioso di leggere Manituana più che altro perché sono un attento lettore dei romanzi del collettivo sostenitore della causa copy left. Mi aspettavo qualcosa in più.

Non è giudizio negativo, non è neanche un’esaltazione, la mia è una via di mezzo. Questo mi fa pensare. Si perché io mi sento, almeno nei miei pensieri e nelle mie quotidiane contraddizioni, una via di mezzo tra l’Europa e l’America. Stavo notando la mia libreria: leggo tantissima narrativa americana, poca roba europea, un bel po’ d’italiana. Perché? Forse perché adoro la fantasia americana libera dalla storia, libera da ogni radice che, se ci dà la nostra coscienza quotidiana, spesso frena anche i nostri pensieri e le nostre analisi. E poi mi sento consapevole, allo stesso tempo, di essere quello che sono perché proprio quelle mie radici me lo ricordano.

Per farsi breve, i Wu Ming raccontano e fanno pensare, e pure tanto, questa è la loro arma vincente, il loro punto di forza. Il sito di Manituana offre approfondimenti, coinvolgimenti, sviluppi costanti della storia. I lettori contribusicono a modellare quello che i Wu Ming hanno tracciato, si sente partecipi di un'opera corale. Il collettivo è capace di stimolare il dibattito grazie anche alla sua intensa attività di dialogo con i lettori. Credo e spero che questo post sia una prova evidente. Il mio giudizio resta in bilico, oscilla, muta ogni istante. Pensandoci bene, questo libro non merita un giudizio, ma solo dei pensieri.

domenica 21 ottobre 2007

I Patassa son tanti, milioni di milioni

Il Patassa, un lungagnone romano. Capelli a parte ha per la testa sempre qualcosa, diciamo che la sua natura è quella di Piranesi, raccoglie frammenti, li mette insieme e ne tira fuori qualcosa di nuovo, originale, impensato. Io sono il nuovo frammento. Come l’ho conosciuto? Beh, bisognerebbe chiedere a nonno Luigi che faceva il contadino si sposò due volte ebbe figli quinquaginta et quinquaginta… vabbè, tirandola corta, per uno di quegli strani incroci generazionali è il figlio di un mio cugino che potrebbe essere mio padre. Non ho mai detto che fosse facile, i Patassini sono secondi solo ai Buendìa e la nostra Macondo si chiama Casaroscia. E come per i Buendìa pare che le generazioni passino, le città cambino ma certi tratti di famiglia restino. Se a lui piace disegnare io faccio l’architetto, scriviamo e leggiamo, capelli ne ho più io, naso uguale. Ci somigliamo insomma, o almeno ci piace pensarlo.

Ad Henry si ricorre per un drink, appena entrati. E a lui ci si affida per una cena raffinata, servita in maniera discreta e ineccepibile. La sua figura magra, quasi ascetica nei suoi sessanta ben portati, accompagna poi silenziosa l’inizio dell’interrogatorio dell’ospite della serata, scandito dalla domanda di rito “Come giustifica la sua esistenza, Mr….?”. Almeno fino a quando non gli viene richiesto di intervenire per sciogliere un enigma che l’ospite offre più o meno consapevolmente durante la conversazione. Questa la ritualità di ogni riunione dei Vedovi Neri, che si riuniscono ogni mese nella saletta privata di un ristorante, ogni volta con un ospite diverso che dovrà sottostare a tre condizioni: rispondere all’interrogatorio rivoltogli dai membri del club, mantenere il più stretto riserbo e il non essere donna. Henry è il cameriere, unico testimone, insieme al lettore, delle riunioni del club e membro effettivo per meriti acquisiti sul campo. Naturalmente, Isaac Asimov.
Nessun cadavere, nessuna concessione sanguinolenta, nessuna analisi di laboratorio, nessuna azione concitata. Anzi, unità di tempo e di azione del teatro classico: tutto comincia e termina, deve terminare, nel volgere di una cena e di una conversazione brillante. Asimov concede ai membri del club e ad Henry un ascolto attento e la possibilità di formulare domande all’ospite. Sufficienti però a stimolare la conversazione: gusto della parola, curiosità, ironia con cui i Vedovi neri, guidati da Henry, arrivano a riconoscere i dettagli determinanti nei racconti e ricostruire gradualmente uno scenario in cui i fatti raccontati possano tornare al loro posto secondo una normale successione di causa e effetto. Che si tratti di un caso di spionaggio o di un furto misterioso. Un metodo che S. Holmes riassumerebbe con una sua massima, “Quando si esclude l’impossibile, tutto il resto, per quanto improbabile, deve essere la verità”. Da Conan Doyle arriva il meccanismo a orologeria del giallo deduttivo, anche se Asimov si riferisce più a Poirot quando racconta la nascita del primo dei racconti dei Vedovi Neri, richiesto e pubblicato dalla Ellery Queen’s Mistery Magazine. Asimov invita il lettore a seguire Henry nel suo scartare la conclusione più ovvia e allargare gli orizzonti, concedere libertà al pensiero per esplorare la realtà senza pregiudizio, nel senso di giudicare prima. La logica non come limite ma come verifica, la prova del nove. Onesto intellettualmente nel non nascondere nessuno dei fili da riannodare, Asimov concede il piacere del gioco sottile, della sfida ad Henry a risolvere per primi l’enigma.

Paolo è un mio ospite molto gradito, ogni tanto pubblicherà sul blog qualche sua impressione su quello che legge. E' uno in gamba, si capisce. E poi pensare a Casaroscia come una Macondo patassiniana, è una gran bella cosa. Fategli i dovuti benevenuti, se li merita.

martedì 16 ottobre 2007

Piccole, impercettibili follie


Questa è una storia vera. Io ci aggiungerò un pizzico di fiction, ma giusto una puntina tanto per assaporare. Siamo a Florence, nello stato dell'Oregon, una delle tante città americane che prendono il nome da quelle italiane. Amanda Lee McDaniel si prepara per uscire dalla sua abitazione, è nervosa, particolarmente nervosa. I vicini infastidiscono il suo umore, quelli lei non li hai mai sopportati. Chiude il gas Amanda, prende la borsa, il cellulare e gli occhiali da sole, non manca niente.
No, qualcosa manca. Le chiavi di casa. Amanda le cerca, prima nel salottino, poi passa nella camera da letto, rovista nel letto disfatto, posa gli occhi sul comodino cercando quel mazzo di chiavi, ma niente, non ci sono. Passa in rassegna il suo angolo cucina, il nervosimo comincia a salire, i nervi affiorano. Butta giù qualcosa, maledice tutto e tutti, quelle cazzo di chiavi non spuntano fuori.
Allora è lì, in quel preciso momento che un dubbio la assale, trasformandosi in certezza: le chiavi le hanno rubate i vicini. Amanda diventa una furia, esce di casa con gli occhi iniettati di sangue si dirige con passo veloce verso la porta dei vicini. Prende a bussare, poi a calciare ed infine a spallare la porta in legno gonfio d'umidità. Entra in casa urlando a squarciagola e le sue parole sono troncate dalla rabbia. I vicini di Amanda, una coppia di mezza età, non riescono subito a focalizzare la situazione, sono disorientati: non capita tutti i giorni di vedersi una pazza dentro casa pronta a distruggere tutto quello che trova. Si, perchè Amanda sta letteralmente rasando al suolo l'abitazione dei vicini. Spacca la vetrina di una piccola credenza, prende a calci un vaso, butta per terra gingilletti vari, rompe i vetri di un quadro ed infine, prende a cazzotti la foto di matrimonio della coppia bastarda, infame e maledetta.
Amanda manda a fanculo il suo vicino di casa, spingendolo via mentre si dirige verso la cucina. Il padrone di casa prova a bloccarla, ma quella è una furia, una scheggia impazzita e si libera subito della presa, riprendendo la sua corsa inarrestabile verso la cucina. Amanda prende dell'alcol per le pulizie e lo sparge sui mobili, sulla macchina del gas, sulle finestre, dappertutto. Poi accende un cerino e lascia che le fiamme s’impossessino della cucina; il fuoco s'accende in un attimo. I vicini escono fuori di casa imprecando, lAmanda, invece, passa per la cucina scavalcando una piccola staccionata.
Della casa, non resterà niente, i pompieri non riusciranno a spegnere l'incendio in tempo. Quando è arrivato il ragazzo di Amanda che era già circondata dai poliziotti, lei ha spiegato tutto, ha detto che quegli stronzi dei vicini le avevano sottratto le chiavi di casa, che quello era uno scherzo che andava punito. Ma il ragazzo ha subito notato le chiavi di casa attaccate alla cintura di Amanda; lei, incredula ha guardato le chiavi ciondolare lungo i suoi fianchi, poi ha riposto il volto tra le mani tremanti e ha cominciato a piangere e singhiozzare.

La storia è tratta da un piccolo articolo pubblicato sulla rubrica Storie vere, dell'Internazionale n.714.

domenica 14 ottobre 2007

Le parole


...Le mie parole son capriole
palle di neve al sole
razzi incandescenti prima di scoppiare
sono giocattoli e zanzare, sabbia da ammucchiare
piccoli divieti a cui disobbedire
sono andate a dormire sorprese da un dolore profondo
che non mi riesce di spiegare...
Le parole qui sopra riportate sono di Samuele Bersani, uno che con le parole e la musica ci sa fare veramente. Riporto questa parte della sua canzone Le mie parole per introdurre l'inusuale episodio al quale il sottoscritto ha assistito. Sabato scorso mi sono diretto verso l'Auditorium per acquistare i biglietti del concerto di Morgan. Chi mi conosce sa che io e l'automobile non abbiamo un ottimo rapporto, e sopratutto sabato pomeriggio non era il momento migliore per una passeggiata in macchina, considerando la manifestazione che imperversava il centro di Roma. Quindi ho fatto il mio bel biglietto e ho preso la metropolitana. Arrivato a Termini c'era il panico: gruppuscoli di manifestanti/turisti che sbandierando il vessillo di An fotografano la città; turisti incuriositi ma allo stesso tempo preoccupati di non poter dirigersi verso il colosseo, visto il caos; conducenti degli autobus visibilmente irritati per l'ennesima manifestazione, per l'ennesimo disagio alla viabilità, per l'ennesimo passeggero (il sottoscritto) che ha chiesto gentilmente dove poter trovare la fermata del bus M, visto che quella di Termini era stata soppressa. Il dipendente dell'Atac mi ha fatto un sorriso apparentemente bonario, perchè nelle parti basse era in atto un giramento di coglioni pari a quello di un'elica. Alza un pò le spalle, allarga le mani a mò di santo e fa echeggiare un "boh" sconfortante.
Mi rigiro un pò per la stazione, cercando qualche indizio. Un cartello attaccato con lo scotch, informa che la fermata del bus M e di altre trenta linee è stata spostata 400 metri dopo Piazza della Repubblica. Quindi, taglio il corteo di An, qualcuno stonava l'inno di Mameli, mentre altri tipi salutavano i turisti con il saluto romano. Passo per Piazza della Repubblica, raggiungo la via indicata e mi trovo una fila senza fine di autobus. Tutti di servizio, ma maledettamente bloccati per via del traffico. Cerco tra questi quello che mi serve, non c'è (ti pareva?). Nell'attesa mi appoggio alla balaustra che si affaccia su un antico chiostro, davvero molto bello. Altri passeggeri come me, di tutte le razze e religioni, si dimenano alla ricerca del loro sospirato autobus; un signore dell'atac con una cartellina in mano, fa il possibile per soddisfare tutte le richieste. Gli si avvicina una signora, credo del sud america, non parla un granchè italiano, chiede di un autobus, il tipo ci pensa, controlla la cartellina, poi indica la via della fermata. Quella non capisce, allora lui inizia una serie contorsioni, sbracciandosi, indicando, emettendo strani versi, che altro non erano che un miscuglio di romanesco e inglese, sembrava Alberto Sordi nel fim Un americano a Roma, "o'right, o'right, attento a destra ce sta er fosso de la Maranella, capito americà?".
Alla fine, la signora, rispondendo con una serie di passi di danza, intuisce dove poter trovare l'autobus, fa un mezzo inchino completato con un sinuoso movimento di fianchi, e saluta l'informatore atac. Quello sorride, mi guarda, si rigira un pò la cartellina e mi fa, "aoh, ma te non ce lo sapevi un pò di inglese?", lo guardo un pò imbarazzato, gli rispondo con un timido si. Lui si mette a ridere, "beh, allora me potevi dà una mano, io cò 'ste parole inglesi mica me la cavo tanto bene", e sbuffando si immerge nella folla di anziani inviperiti contro tutto e tutti.
Quando poi una signora si avvicina e mi chiede di poterle leggere i numeri degli autobus sul cartellone della fermata, mi metto accanto a lei, aiutato da un rumeno, e iniziamo ad elencarle tutte le fermate.

giovedì 11 ottobre 2007

E' per questo che scrivo


Questo è il primo post che scrivo senza dargli subito un titolo. Di solito, quando sto per aggiornare il blog, ho già in testa un titolo, stavolta no. Sto continuando a scrivere la sera, quando ho più tempo. Non riesco a trovare la costanza, quindi capita che per giorni il romanzo (chiamiamolo così...) resti in sospeso. Il personaggio principale sta assumendo una sua vera indentità, credo che abbia già la forza di uscire dalle righe ed entrare nell'immaginario. Adesso, per di più, ha avuto un primo contatto con il suo mentore, raffigurato nella foto; sarà questo a dare uno slancio, decisamente surreale alla storia.
Negli ultimi tempi ho ricevuto apprezzamenti per Ore piccole, raccolta di racconti scritta nell'inverno di questo anno. Ogni volta che ricevo dei commenti positivi un pò mi imbarazzo, e poi, in un secondo momento, affiora la solita maledetta domanda: "ma sarò bravo a scrivere?". Io non lo so se sono bravo a scrivere, se riesco, ogni volta, ad esprimermi correttamente o a far vivere l'emozione della storia che sto scrivendo a chi (poveretta/o) leggerà le mie parole. Questa insicurezza mi lascia sempre con un punto interrogativo enorme che non riesco a scacciare. Però di una cosa sono certo, da quando ho iniziato a scrivere, non sono più riuscito a smettere. Scrivere è una gran bella cosa e credo che aiuti molti a conoscersi; forse, prima ancora di far leggere delle storie alla gente, chi scrive vuole raccontarsele per sè, meravigliarsi del racconto prodotto dal cervello e sognare un pò ad occhi aperti. Forse è per questo che scrivo, e sicuramente questa frase è il titolo del post.

lunedì 8 ottobre 2007

Intimi pensieri


Mi sono addentrato nel libro dei Wu Ming, Manituana, quindi per un po’ ne avrò di che leggere. Era da tempo che attendeva nello scaffale di “quelli da leggere”, e non poteva più essere ignorato. Anche se ho captato giudizi altalenanti, naturalmente non voglio sbilanciarmi in nessun tipo di valutazione o critica, per adesso non mi sta dispiacendo.

Invece, ecco di che cosa voglio scrivere su ‘sto post oggi, c’è un libro che merita attenzione. La vergogna delle scarpe nuove, di Paolo Nori, è un libro particolarissimo. Questo libro l’ho scovato su Anobii, spulciando nelle librerie virtuali altrui, il titolo mi aveva incuriosito e per mia ignoranza di Paolo Nori non sapevo nulla. Il libro può essere considerato un filmato amatoriale di vita reale, frammenti di vissuto trasformati in parole. E’ soprattutto lo stile utilizzato da Paolo Nori ad avermi trasmesso questa sensazione: pochissima punteggiatura, flussi di pensieri che si susseguono senza pause, senza logiche narrative, ed infine, intimistiche impressioni, così personali che a volte ci si sente in imbarazzo. Si entra nella vita reale di uno scrittore, traduttore di romanzi russi e tutto viene rappresentato grazie ai pensieri di chi scrive, forse, vero attore protagonista. Un rapporto di coppia che non funziona più, una figlia che non sta bene, la tensione crescente nei tragitti andata e ritorno in bicicletta, da casa all’ospedale. Parma, che in fondo è meglio di Bologna.

Per descrivere sinteticamente il romanzo bastano le parole di Paolo Nori:

“questo libro racconta una fine, e si legge in due ore”.

Sottolineo la particolarità del testo, non vi aspettate niente di tradizionale; non è facile comprendere subito una punteggiatura minimalista e tempi a volte troncati, proprio come accade nell’elaborazione continua di pensieri. Ma non è detto che un libro debba sempre rispettare certi canoni per essere apprezzato. Quello di Paolo Nori a me ha ricordato molto l’intimità narrativa di Svevo, nel suo capolavoro La coscienza di Zeno. Anche ne La vergogna delle scarpe nuove c’è la conflittualità dell’io, le convinzioni, le insicurezze, i dubbi che affollano la mente, le decisioni e le conseguenze, tutti aspetti che caratterizzano i nostri pensieri ogni giorno.

giovedì 4 ottobre 2007

Remare in un mare di legno


Sareste capaci remare in un mare di legno? Si, di legno. Niente acqua, troppo facile, qui si parla di legno come materia solida. Naturalmente la prima risposta che si darebbe, affidandosi alla logica, alla ragione, è un perentorio no. Leggendo il libro di Jonathan Carroll, terminata l'ultima pagina, ho ripensato alla domanda scritta qui sopra, e la risposta è stata tutt'altro che no. Il mare di legno è un romanzo che mischia surrealismo con quotidianità, riflessioni profonde, direi filosofiche, con momenti di narrativa veloce e piacevole.
Leggendolo mi sono immerso nella provincia americana, quella tranquilla in questo caso, niente scintille di violenza e razzismo strisciante raccontate dalla provincia di Lansdale, quella del sud. Crane's View è una piccola cittadina assopita, tra i soliti personaggi di paese c'è anche il capo della polizia Francis McCabe, è lui che riceverà la visita di un cane ridotto male, con tre zampe, un aspetto orribile e che, poco dopo, gli morirà nel suo ufficio. Il cane verrà seppelito da Francis ma il cadavere sembra non voglia rimanere nella sua fossa... Il capo della polizia McCabe si addentra in una storia piena di stravanganze e, ad aiutarlo, non sarà da solo, ma i suoi io del passato torneranno per ricodargli chi era e chi è adesso. La sensazione di imbarazzo o di biasimo che si prova sfogliando le vecchie foto che testimoniano chi eravamo, è descritta benissimo da Carroll.
Ecco, come si può immaginare la fantasia si intreccia con la realtà, e questa sarà una costante del libro di Carroll. Ciò che più mi ha stupito è che le cose strane, quelle che interferiscono con la realtà di Francis McCabe, mai si rivelano fuori posto, insomma, il romanzo è scandito dal reale e surreale che convivono in perfetta armonia, si pensa addirittura che non sia per nulla impossibile spiccare il volo da una cappotta di una macchina, anzi, è la cosa più facile del mondo. Dopo aver letto questo libro, fatevi questa domanda "saprei remare in un mare di legno?", la vostra risposta sarà "probabilmente si".

lunedì 1 ottobre 2007

Quando un libro è una sopresa


Le mie letture estive, come ho già scritto un pò di post fa, sono state quasi tutte piacevole, alcune direi addirittura formative (Don De Lillo in primis); comunque, sta di fatto che quest'estate ho pescato dei bei libri. Tra questi devo annoverare una vera e propria sopresa, il libro scritto da Marco Amato, Una bomba la cantagiro.
Che roba è? Io ne sapevo meno di voi fino a che non mi è capitata sotto al naso la recensione del suo romanzo su Nandropausa, un bel contenitore di letture selezionate e consigliate dai Wu Ming. Di solito, se si ha giù un pizzico di empatia con il collettivo, non si rimane mai delusi dalle loro proposte. Nel numero di luglio c'era anche Una bomba al cantagiro. Lo ammetto, la prima cosa che mi ha stuzzicato è stata la copertina, grafica essenziale, messaggio chiarissimo. Ma poi naturalmente la recensione mi ha convinto a leggerlo. E quindi eccomi seduto sul balcone, con i piedi sulla ringhiera a gustarmi questo romanzo.
Una bomba al cantagiro è ambientato nell'Italia del 1969, dove la contrapposizione tra un periodo di benessere e serenità, con la fine degli anni del boom economico, rappresentato perfettamente dal carozzone del Cantagiro, e le rivendicazioni sociali con annesse tensioni crescenti, spesso sfociate in atti di violenza come l'esplosioni di bombe, fa da cornice al romanzo. Io, nato nel 1982, naturalmente del Cantagiro ne sapevo poco, anzi nulla. Era una competizione canora itinerante che animava le estati italiane con i più importanti cantanti nostrani. Marco Amato dipinge con un tono grottesco, quasi dissacrante, lo spettacolo, e riassume tutto questo nella figura di Ricky Danesi. A mio parere un personaggio a tutto tondo, esilarante, uno di quei personaggi che mi rimarrà in testa. Danesi è un cantante cascato nel dimenticatoio, uno di quelli che è riuscito a ritagliarsi uno spazio nel periodo di benessere e serenità cantando una canzone mediocre che dura un'estate e che poi si dimentica. L'eccentricità di Ricky Danesi è ben bilanciata con la dedizione al lavoro e la fede nello stato, del cellerino, promosso agli uffici affari riservati, Pino Abbrescia. Due personaggi notevolmente diversi che però hanno un interesse comune, la musica.
La storia è ben riuscita, è avvolgente, dinamica, senza zone grigie. Interessante poi la struttura narrativa, dove si alternano narrazioni in prima persona, a ritagli d'articoli dell'epoca, a rapporti informativi della polizia, ad estratti di bibliografia.
Una bomba al cantagiro di Marco Amato è una lettura che consiglio vivamente, oltre che ad essere piacevole e divertente ha una chiave d'interpretazione originale di quegli anni, tanto calcalti da quella narrativa impegnata e pesante di sinistra che mai ha trovato il giusto equilibrio tra fiction e impegno.
Non voglio spingermi oltre, comunque, se vi capita di adocchiare il libro non lasciatevelo sfuggire, vi perdereste una bella sorpresa.