martedì 29 gennaio 2008

Pirandello mandami una mail


L’inconsistenza dell’essere. Questa è una frase tremendamente bella, credo che qualsiasi scrittore vorrebbe utilizzarla nel suo romanzo. E’ una frase particolarmente musicale: questa esse che assume diverse tonalità la rende armoniosa. Ma, soprattutto, è una frase piena zeppa di significato. Cavolo, ci si potrebbe tirar su una tesi di filosofia. Ieri sera, terminando la lettura de Il Fu Mattia Pascal di Pirandello ho pensato a questa frase, forse il mio cervello ha voluto sintetizzare il romanzo in questa parole. Effettivamente, seguendo le peripezie di Mattia, penso alla profondità del messaggio che Pirandello ha voluto inviare al lettore.

Perdere la cognizione di essere qualcuno e, successivamente, cercare un’identità vera, profonda, immune alle distorsione che compie la società cercando di schematizzare le caratteristiche personali, è la più grande ricerca che l’uomo del ‘900 poteva compiere. Tutt’oggi la ricerca della propria identità appare una della fatiche più ardue dell'uomo. Internet è uno strumento dove le caratteristiche personali ostentate in un ambiente analogico possono diversificarsi, o moltiplicarsi, creando identità multiple. L’identità multipla e mutevole è un concetto che trova una chiave di lettura vincente se rapportato alla cultura dei media attuali. Immagino se Pirandello potesse curiosare sulla rete, chissà quante ispirazioni potrebbe trovare, chissà che romanzo potrebbe nascere. Magari un Mattia Pascal digitale.

martedì 22 gennaio 2008

Un autobus per capire


Quando avevo poco più di diciotto anni e il mondo mi stava stretto, uscivo di casa e prendevo l’autobus 715. Il mitico 715. L’autobus che, partendo da S.Paolo arriva fino a Piazza Venezia. Era un toccasana prenderlo e andarmene via, scivolare nel traffico appoggiato con la testa al finestrino, là fuori, il mondo, si contorceva in lamiere strombazzanti, io invece, guardavo con occhi ingenui. Così iniziai a bazzicare per il centro. Una, due, tre volte. Quando l’autobus arrivava al capolinea, di fronte la scalinata per il Campidoglio, sbuffava esausto, apriva le sue porte e lasciava che i passeggeri uscissero come formichine ben istruite. Tutti prendevano una direzione diversa: i turisti si lasciavano trasportare dall’entusiasmo, ripetendo più volte, come una cantilena propiziatoria “oh my god, oh my god”. Gli anziani a braccetto si facevano spazio nel girone infernale di Piazza Venezia, inveivano silenziosamente su quella Roma irriconoscibile ai loro occhi.

Così, in una delle mie libere uscite per il centro, incappai nella libreria Feltrinelli. Ci andai perché costretto: dove acquistare un romanzo per la scuola, se non ricordo male, era Tre croci di Federigo Tozzi. Leggevo fumetti in quegli anni, ma niente più. I libri mi annoiavano mortalmente, se prendevo in mano un libro, intendo un romanzo, era solo perché i professori mi obbligavano a farlo, altrimenti non ne provavo alcun bisogno. Comunque, la libreria mi fece una buona impressione, così decisi di tornarci e comprai un paio di libri da me scelti.

Sulla via del ritorno, spaparanzato sul sedile grigio chiaro del 715, mi misi a leggere quello che avevo acquistato: una puttanata, ma all’epoca non ne ero cosciente. Mi piaceva osservare le facce di chi avevo accanto. Insomma, ero un ragazzino con un libro in mano, e per di più lo stavo leggendo, come minimo dovevo suscitare lo stupore di tutti i passeggeri. Così non fu. Durante il tragitto, capii che il libro era qualcos’altro, era un concetto più profondo, decisamente più complicato. Aprire un libro non significava realizzarsi, anzi, col tempo capii che un libro conteneva molte più domande che risposte. Per la prima volta assaporai l’arbitrarietà del reale e le mille forme che può assumere. Fu il crollo di uno dei miei tanti preconcetti infilati nella zucca per tutta l’adolescenza; ciò che un professore non era riuscito a farmi capire, cioè della fragilità dell’apparenza e della solidità del contenuto, lo avevo appreso in uno dei miei vagabondaggi post-adolescenziali.

Ecco, a questo punto dovrei parlare di Renèe e della sua storia. Si, perché leggendo L’eleganza del riccio, ho pensato a quello che ho scritto sopra. La profondità dell’animo della portinaia di rue de Grenelle si misura con la conoscenza di essa attraverso mille e più elucubrazioni più o meno intimiste. Non mancano, anche in questo caso, ingombranti luoghi comuni, soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi, ma è certo che, addentrandosi nel libro, si pensa in modo differente e poco banale. La professoressa di filosofia, Muriel Barbery, autrice del romanzo, impasta una storia in prima persona con tante riflessioni filosofiche mai pedanti. A qualcuno il libro è apparso molto schematico, anzi, lo ha addirittura considerato un sollazzo romanzato per single trentenni che votano rifondazione. Mi ha fatto ridere tale considerazione, però un po’ ci azzecca. Effettivamente, leggendo il libro, si incotrano alcuni schemi retorici tipicamente sinistrensi, ma è altrettanto vero che la stessa Barbery ogni tanto lancia accuse più o meno velate indirizzate proprio ai preconcetti tipici del mondo intellettuale di sinistra. La portinaia, in una delle sue riflessioni, si chiede perché dei giovani borghesi di sinistra si ostinino a vestirsi come dei straccioni; o perché, la filosofia universitaria, si chiude nel suo ambiente, senza applicare all’esterno ciò che studia, senza offrire al mondo le sue fatiche. Queste sono domande che stimolano in me riflessioni. Ecco cosa cercavo dai libri in quel mio girovagare sull’autobus: capirmi un po’ di più attraverso le parole stampate.

giovedì 17 gennaio 2008

La città di Leonia


Leonia è una città pulita. Ha le sue strade grandi, ampie, moderne. I cittadini di Leonia producono, consumano e gettano via. Gesto banale questo che riformulano ogni giorno con semplicità. Ma dove va a finire ciò che buttano via? Nella spazzatura, che domanda! Così vi risponderebbe un normale cittadino di Leonia. E quella spazzatura dove viene raccolta? Ecco, a questa domanda il normale cittadino troverebbe alcune difficoltà. Si, perché quei sacchetti appoggiati fuori la porta di casa la sera, il mattino seguente scompaiono. Quindi non c’è di che preoccuparsi. Gli angeli di Leonia sono gli operatori ecologici, in passato etichettati come spazzini. Sono loro che mantengono dignitosamente pulita la città. Raccolgono i sacchetti dell’immondizia, li portano lontano da Leonia ed infine li abbandonano dove nessuno li possa né vedere né sentire. Nascosti, sotterrati, bruciati, qualche volta riciclati (ma quasi mai), il risultato di quella serie di gesti, produrre-consumare-gettare via, è un puzzo vomitevole lontano dalle mura di Leonia. Così accadeva in passato.

Ma il tempo passa, i consumi crescono, Leonia si espande e le case si avvicinano sempre più ai cumuli di immondizia ora divenute timide collinette maleodoranti. Si scaricano i rifiuti sempre più lontano, i poveri operatori ecologici sono costretti a farsi un’intera giornata di viaggio per poi mollare montagne di bottiglie di plastica, scatolette di tonno, deodoranti, resti di pollo, piatti di plastica e tanto, troppo altro ancora. Gli operatori si lamentano, chiedono aree attrezzate per la raccolta dei rifiuti, gli amministratori di Leonia, con le loro belle fasce tricolore, temporeggiano perché consapevoli che l’immondizia di Leonia lambisce le mura delle altre città e ciò potrebbe causare seri problemi di carattere diplomatico. Così si chiede ai cittadini di ridurre i consumi, ma questi non ci stanno e neanche gli industriali sono contenti, chi comprerà i loro prodotti se i consumi diminuiranno? Allora gli amministratori decidono di realizzare una discarica pubblica, regolata e gestita nel modo più corretto possibile. Nessuno la vuole vicino la propria casa, fa puzza, inquina, anzi, potrebbe addirittura far ammalare per via delle putride esalazioni. Ma i soldi stanziati per la costruzione della discarica ci sono e vanno in qualche modo sfruttati. Qualche amministratore lo si nota per le strade di Leonia con una splendida auto sportiva, dai colori sgargianti, dal motore ruggente. Intanto i rifiuti aumentano. L’immondizia di Leonia spinge contro quella delle città limitrofe. Sorgono le prime colline di plastica che col tempo divengono montagne vere e proprie, a tal punto che un’agenzia turistica offre escursioni guidate.

Proprio oggi un cittadino del centro di Leonia, cugino di uno degli amministratori di spicco della città, aprendo la finestra della sua camera da letto, è rimasto sotterrato dai sacchetti di immondizia. Per le strade cresce il malcontento, tutti puntano il dito contro l’altro, le splendide auto degli amministratori non riescono più a transitare lungo le strade, ci sono troppi rifiuti incustoditi. Mentre Leonia muore sotterrata dalla sporcizia, una flebile voce, proveniente da chissà quale televisore, nascosto sotto bucce di banana e torsoli di mela, chiede di consumare, consumare e consumare.

Ispirato dal racconto sulla città di Leonia dal libro Le città invisibili di Italo Calvino.

mercoledì 9 gennaio 2008

Il noir si sta sciogliendo


Inizio il nuovo anno scrivendo sul noir. E’ da un po’ che medito riguardo a ciò che la nostra editoria sta facendo nei confronti del genere noir. Tali mie elucubrazioni sono state rinvigorite e confermate da un articolo di Goffredo Fofi, direttore della rivista Lo straniero, pubblicato tempo fa sul settimanale Internazionale. La sua è una constatazione difficilmente confutabile: il genere noir in Italia, ma credo anche in giro per il mondo, sta sbiadendo, si sta sciogliendo lentamente come i ghiacci. L’agente incriminato non è il global warming ma l’azione compiuta dalla editoria che, vedendo nel genere un investimento sicuro, stampa qualsiasi cosa sia noir, la produzione ha raggiunto un livello elevatissimo di saturazione. Muovendosi per le librerie si possono trovare un numero davvero esorbitante di romanzi etichettati come noir o roba simile. C’è di sicuro materiale degno di nota, ma è altrettanto vero che non mancano le sciocchezze. Per Fofi il noir, fino a dieci anni fa, era portatore di tematiche metropolitane vere, crude, dure, spesso sottovalutate, esenti da un confronto. Analisi sul germe della violenza, sull’insaziabilità del potere, sulle contorsioni psicologiche, ecco alcuni aspetti sviscerati dal genere che grazie a schemi narrativi taglienti e dinamici, riusciva a mettere in luce l’altra faccia della società. Il noir sembrava una risposta letteraria a quella nicchia elitaria con la puzza sotto il naso.

Oggi tutto questo è fin troppo calcato dai media, dall’industria culturale e dai fruitori anestetizzati e che, come scrive Fofi, “a forza di ingurgitare sciocchezze le sciocchezze finiscono per piacere”. L’editoria sta spremendo fino all’ultima goccia il genere noir, in Italia escono in media due romanzi al giorno, c’è di tutto e per tutti i gusti. Però è troppo, questa è un’indigestione che porterà (se non lo ha già portato) al collasso del genere.

Secondo Goffredo Fofi, in chiusura del suo articolo, il trionfo del noir rivela che questa società è impregnata di criminalità e che il crimine affascina tutti, scrittori, editori, registi, giornalisti e quant’altro. Non si può dargli torto, i plastici di Cogne da Bruno Vespa sono l’esempio per eccellenza, o che dire dei nomi o nomignoli che i giornali danno ai protagonisti di crimini cruenti? Amanda, Patrick, Meredith, vengono usati nomi come se fossero nostri conoscenti, protagonisti di una series più che di un fatto di cronaca.

Io mi sto progressivamente allontanando dal noir, o meglio, ho reso più invulnerabili le mie difese da slogan spiaccicati sulle copertine come “opera mastodontica” o “nuova interpretazione del genere noir”. Difatti, dietro a tali frasi si nascondono spesso dei bidoni colossali. Lancio uno sguardo fugace al settore noir, quando sto in libreria, cerco in altri scaffali, magari negli angoli più nascosti, dove spesso si nascondono le sorprese.