Questa volta sono due storie di uomini che voglio raccontarvi. Storie diverse, ambientate in epoche diverse, in paesi lontani tra loro, ma che hanno in comune un’incompletezza di fondo, a volte latente e ambigua, altre volte manifesta e impossibile da non considerare. La prima è la storia, intitolata Il mio cane stupido scritto da John Fante e raccolta nel libro A ovest di Roma. E’ la storia Henry Molise, scrittore cinquantenne, padre di figli più o meno scapestrati persi nella spensieratezza della gioventù e frutto di un rapporto familiare dagli equilibri precari. La moglie di Henry poi, è in lei che si può riscontrare quel senso di rabbia, di repressione, di sopportazione di tutte le negatività di una famiglia: è lei che sostiene con le sue esili braccia il fardello familiare. Si perché Henry Molise è alla costante ricerca di una sua identità definitiva, solida, tangibile; è l’Orlando perso nel bosco narrativo alla caccia della sua Angelica che altro non è che l’estenuante e infinito errare dell’uomo nel vuoto della sua incompletezza. Henry cerca un suo io, ma deve scontrarsi con la terribile superficialità delle cose come il lavoro, i figli, un cane (al centro della storia, falsamente messo sotto i riflettori da John Fante, ma che poi si rivela un semplice strumento per scatenare gli eventi), dei vicini, il costume americano circoscritto e ben curato come il giardino della villetta a Y dove Henry vive. E quando la realtà fa troppo male, entra nelle carni e l’accettazione di questa diventa insostenibile, Henry pensa a Roma, la sogna, la concepisce come un nido accogliente, una tana dove rifugiarsi nel codardo tentativo di scappare dalle responsabilità, di mollare tutto. La scrittura asciutta e diretta di John Fante permette al lettore di addentrarsi nella psiche del protagonista e, allo stesso tempo, di non perdere lo svilupparsi degli eventi, del mutare della storia. Fante si lascia leggere come un abbraccio mai troppo stretto, ma neanche rassicurante, nelle sue parole c’è sempre un pizzico di inquietudine, leggero, certo, ma pur sempre presente e costante. C’è l’idea che tutto quello che sta accadendo in quelle pagine possa crollare, la paura che la normalità del personaggio possa infrangersi, che la sua stabilità possa scivolare su di un piano maledettamente inclinato. E se bramiamo alla nostra completezza nell’idea del nuovo, del cambiamento, perché questo timore per la sorte di Henry Molise, per il depauperare della sua esistenza in nome di una ricerca di un suo completamento?
L’altra storia, tutta italiana, è quella che scrive Igino Domanin col suo romanzo d’esordio Spiaggia libera Marcello. Una storia che vede come protagonista Marcello, un laureato dalle ambizioni ormai spente in un istituto professionale dove insegna e che vive un paese senza sogni, senza speranze, in un’Italia tragicamente vuota e silenziosa. Marcello soffre di vertigini ma, questa sua debolezza, sembra provenire più dall’ambiente esterno che, al contrario, dal suo corpo, dalla sua carne. La vita di Marcello, costantemente in bilico sul ciglio dello strapiombo dei vuoti della realtà, cambia radicalmente perché ecco giungere una proposta di lavoro in un’università avveniristica situata nella ridente e tranquilla Svizzera. E’ grazie ad un vecchio compagno di studi, il Panzeri, che Marcello ricordava come un tipo goffo, dalle camicie sudate e i capelli unti, uno di quelli che ancora veniva vestito dalla madre, l’autorità inossidabile della sua vita, ma che ora appare come un uomo dinamico, dal fisico asciutto, ostentatore di una fiducia e sicurezza nella vita. E Marcello si sente in debito con lui, si pone su di un livello più basso di prostrazione e rispetto. L’equilibrio nei rapporti che variano, si ribaltano, mutano a seconda degli interessi portati con peso e fatica dai diversi personaggi che popolano la storia, rende Spiaggia libera Marcello un romanzo di piccole solitudini per piccoli uomini, consapevoli dei loro vuoti e che non si dimenano più per riempirli, ma semplicemente vivono per sopravvivere e convivere con questi. Igino Domanin dipinge Marcello come il paradigma della rassegnazione del nuovo millennio, uno sconforto che si affievolisce di fronte alla semplice e inossidabile sopravvivenza in questo mondo; alla fine del romanzo è proprio questo estremo bisogno alla sopravvivenza, questo stringere forte un sostegno per non essere inghiottito dalla vertigine, che rende la storia un ciclo che si ripete, un binario che riporta al punto di partenza, e il paesaggio resta immutato.
Due storie che si impregnano dello sconforto di questi tempi ma che, a mio parere, contengono in esse una visione, seppur decadente, quantomeno aderente alla realtà. Queste due storie, di questi due uomini, sono l’esempio in parole che spesso la cura è nascosta nella malattia, che infondo c’è sempre una speranza, la speranza dello scrivere ad esempio, del confronto attraverso un romanzo, un’emergenza nel comunicare per condividere i nostri dubbi e che, infine, la vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare.
6 commenti:
bellissima la copertina del primo...Edward Hopper. Lo prenderei solo per questo ;)
"A ovest di Roma" l'ho letto anch'io.
Che purezza, che immagini, che stile. Che invidia!
ho risposto alla mail dall'indirizzo msn.... FUNZIONA!!risalutoni:)
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concordo sulla copertina..;D
gran libro... chissa...quasi quasi me lo pappo!!!!
ciao andrea!!!!
passa a vedere le nuove locandone!
ciaoooooooooooooooooooooo
@lapilli:Hopper è uno dei più grandi.
@choppa:Fante non lo conoscevo per niente, il merito va sempre al portentoso aNobii, una miniera di sorprese!
@adrio:io ti consiglio il libro di Domani, c'è quella decadenza sociologica che potrebbe ispirare i tuoi disegni, provalo! ;-)
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