Dicono che le storie sono l’ascensore verso l’infinito. La ricerca di una storia si compie sul piano dell’infinito. Le storie esistono, tutte, c’è solo da trovarle, fiutarle e, infine, catturarle in una frase, un paragrafo, un capitolo, un romanzo. Quando scrivo spesso concretizzo esperienze personali in parole, poi aggiungo la storia ovvero quella scandirsi del tempo che permette al lettore di poter viaggiare lungo il piano narrativo perdendo completamente la dimensione del reale, entrando, definitivamente, in quella dell’infinito. Il tempo nelle pagine di un romanzo non ha senso. Il tempo nel leggere un libro, nell’immedesimarsi in una storia è un rallentamento della nostra percezione del vivere. Stiamo mettendo in pausa (o quasi) la nostra archiviazione di dati percettori che si tramutano in esperienza, per abbandonarci all’immissione di esperienze esterne codificate in parole pronte per essere elaborate dal nostro cervello in visioni mentali. E’ un processo immaginativo questo che ci obbliga a proiettarci in una dimensione alternativa a quella che normalmente percepiamo.
Ieri sera ho visto Into the wild, un film che straconsiglio ha tutti e, in contemporanea, ho iniziato a leggere I racconti dello Yukon e dei mari del sud di Jack London. Leggerò alcuni racconti, cercherò di fermare il tempo tra le pagine impregnate di avventure, di storie di uomini e cani tra le fredde piste del Nord America. Poi vi dico.