Quando avevo poco più di diciotto anni e il mondo mi stava stretto, uscivo di casa e prendevo l’autobus 715. Il mitico 715. L’autobus che, partendo da S.Paolo arriva fino a Piazza Venezia. Era un toccasana prenderlo e andarmene via, scivolare nel traffico appoggiato con la testa al finestrino, là fuori, il mondo, si contorceva in lamiere strombazzanti, io invece, guardavo con occhi ingenui. Così iniziai a bazzicare per il centro. Una, due, tre volte. Quando l’autobus arrivava al capolinea, di fronte la scalinata per il Campidoglio, sbuffava esausto, apriva le sue porte e lasciava che i passeggeri uscissero come formichine ben istruite. Tutti prendevano una direzione diversa: i turisti si lasciavano trasportare dall’entusiasmo, ripetendo più volte, come una cantilena propiziatoria “oh my god, oh my god”. Gli anziani a braccetto si facevano spazio nel girone infernale di Piazza Venezia, inveivano silenziosamente su quella Roma irriconoscibile ai loro occhi.
Così, in una delle mie libere uscite per il centro, incappai nella libreria Feltrinelli. Ci andai perché costretto: dove acquistare un romanzo per la scuola, se non ricordo male, era Tre croci di Federigo Tozzi. Leggevo fumetti in quegli anni, ma niente più. I libri mi annoiavano mortalmente, se prendevo in mano un libro, intendo un romanzo, era solo perché i professori mi obbligavano a farlo, altrimenti non ne provavo alcun bisogno. Comunque, la libreria mi fece una buona impressione, così decisi di tornarci e comprai un paio di libri da me scelti.
Sulla via del ritorno, spaparanzato sul sedile grigio chiaro del 715, mi misi a leggere quello che avevo acquistato: una puttanata, ma all’epoca non ne ero cosciente. Mi piaceva osservare le facce di chi avevo accanto. Insomma, ero un ragazzino con un libro in mano, e per di più lo stavo leggendo, come minimo dovevo suscitare lo stupore di tutti i passeggeri. Così non fu. Durante il tragitto, capii che il libro era qualcos’altro, era un concetto più profondo, decisamente più complicato. Aprire un libro non significava realizzarsi, anzi, col tempo capii che un libro conteneva molte più domande che risposte. Per la prima volta assaporai l’arbitrarietà del reale e le mille forme che può assumere. Fu il crollo di uno dei miei tanti preconcetti infilati nella zucca per tutta l’adolescenza; ciò che un professore non era riuscito a farmi capire, cioè della fragilità dell’apparenza e della solidità del contenuto, lo avevo appreso in uno dei miei vagabondaggi post-adolescenziali.
Ecco, a questo punto dovrei parlare di Renèe e della sua storia. Si, perché leggendo L’eleganza del riccio, ho pensato a quello che ho scritto sopra. La profondità dell’animo della portinaia di rue de Grenelle si misura con la conoscenza di essa attraverso mille e più elucubrazioni più o meno intimiste. Non mancano, anche in questo caso, ingombranti luoghi comuni, soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi, ma è certo che, addentrandosi nel libro, si pensa in modo differente e poco banale. La professoressa di filosofia, Muriel Barbery, autrice del romanzo, impasta una storia in prima persona con tante riflessioni filosofiche mai pedanti. A qualcuno il libro è apparso molto schematico, anzi, lo ha addirittura considerato un sollazzo romanzato per single trentenni che votano rifondazione. Mi ha fatto ridere tale considerazione, però un po’ ci azzecca. Effettivamente, leggendo il libro, si incotrano alcuni schemi retorici tipicamente sinistrensi, ma è altrettanto vero che la stessa Barbery ogni tanto lancia accuse più o meno velate indirizzate proprio ai preconcetti tipici del mondo intellettuale di sinistra. La portinaia, in una delle sue riflessioni, si chiede perché dei giovani borghesi di sinistra si ostinino a vestirsi come dei straccioni; o perché, la filosofia universitaria, si chiude nel suo ambiente, senza applicare all’esterno ciò che studia, senza offrire al mondo le sue fatiche. Queste sono domande che stimolano in me riflessioni. Ecco cosa cercavo dai libri in quel mio girovagare sull’autobus: capirmi un po’ di più attraverso le parole stampate.