sabato 31 maggio 2008

La strage delle idee


Ho letto in questi giorni Il sopravvissuto di Antonio Scurati. Era da tempo che questo libro, per un motivo o per l’altro, mi ronzava intorno. La storia si apre con una scarica di tensione da lasciar tramortite le povere sinapsi: Vitaliano Caccia si presenta alla prova orale dell’esame di maturità, la sua bocciatura è scontata, entrando nella palestra adibita un po’ grossolanamente a teatro per ansie post adolescenziali, spara su tutta la commissione lasciando vivo solo il professore di storia e filosofia, Andrea Marescalchi, il sopravvissuto alla strage.

Da questo momento in poi nasce il romanzo-analisi di Scurati, un viaggio nelle reazioni ad un fatto di cronaca nella profonda e sconfinata provincia italiana. La televisione, i giornalisti, l’isteria collettiva, l’ipocrisia di una solidarietà che falsamente incrina l’individualismo che contraddistingue la nostra società, è questo vortice di considerazioni che avvolge Andrea Marescalchi nella ricerca del suo studente omicida. A volte però Scurati lascia trasparire tra le sue parole alcune smorfie tipiche dell’ambiente un po’ dissociato dei letterati; se il libro mi era stato consigliato come raccolta vastissima e purissima di esperienza scandita in capitoli, francamente più volte ho sentito la critica farsi stridio. Magari non sono riuscito ad immedesimarmi nel ruolo dell’insegnante, nelle descrizioni di quell’ambiente spesso appesantite dallo sconforto della scuola pubblica manifestata in immagini (vedi la decadenza architettonica dei complessi scolastici), o l’appassire dei compiti dell’insegnamento (vedi l’invecchiamento dei professori e la perdita di ogni entusiasmo nel loro lavoro sostituito da un gelido cinismo).

Su alcuni punti invece ho trovato le riflessioni di Scurati davvero interessanti, e mi riferisco soprattutto all’aspetto sociologico del romanzo. La perversione mediatica nello sviscerare casi di cronaca nera assume forme grottesche soprattutto quando è la scatola luminosa ad impossessarsene ed a interpretarle secondo i suoi canoni (non d’abbonamento). Il caso della strage di Erba o quello di Cogne sono paradigmatici: l’atto omicida è riproposto sotto ogni chiave di lettura; le vittime e i carnefici vengono progressivamente ridotte a personaggi dalle caratteristiche semplificate (per non dire banalizzate); e poi i condor, ovvero gli spolpatori delle tragedie, quelli dell’approfondimento in seconda serata, si incuneano in lacrime e dolore, offrono al telespettatore tutta la crudeltà del caso, chiedono, sospirano, si indignano e lasciano agli “esperti” il compito di riassumere professionalmente l’atto violento in sé. Col passare del tempo l’omicidio, la strage, l’atto di violenza perde il suo significato per trasformarsi in fiction, entrando così in una dimensione popolare dove è permessa una rilettura. Così si spiegano le ospitate in trasmissioni che nulla hanno a che vedere con fatti di cronaca nera. L’agenda è bella che pronta: l’opinione pubblica di quello parlerà, o meglio, il confronto vero e sincero ormai è ridotto alla intermediazione perenne della televisione. Così facendo le analisi per forza di cose si adattano alla schematizzazione dei tempi televisivi e si perde il succo, la sostanza delle singole idee personali, quelle che più di ogni esperto danno il senso delle cose. Si rischia di rimanere nel flusso costante della tv, di lasciare che sia l’agenda televisiva a decidere di cosa e come parlare. Lo so, sono vecchie riflessioni, io, nel mio piccolo, non aggiungo nulla di nuovo.

Postilla personale: io non sono uno di quelli che schifa la televisione, anzi, mi nutro di essa (almeno di una parte di essa) e credo che lo strumento televisivo abbia in sé tutte le potenzialità per rendere la vita di una persona un po’ più intelligente, un po’ più ricca. Certo, non posso consegnare le chiavi del mio cervello alla tv, rischierei di perdere tutte le complessità del mondo che ci circondano; rischierei di credere che nello schermo tutto avviene, nulla è nascosto.

giovedì 22 maggio 2008

Il romanzo nel romanzo


L’ordine dei superiori è quello di uscire fuori dalle trincee, stringere bene il fucile tra le mani, evitare le pallottole, schivare quel concentrato di piombo ed altre leghe che potrebbe conficcarsi nel fondo della carne e, infine, fidarsi ciecamente della baionetta quando il tamburo è scarico, perché, alla fine di tutto, la baionetta è l’unica amica in quello scenario catastrofico. Questo avrà pensato John Ronald Reuel Tolkien urlando come un forsennato, pensando alla sua Regina delle fate, Edith Bratt. Sicuramente pensò a lei mentre tornava con l’anima in spalle, sopravvissuto alla Battaglia della Somme, i suoi amici erano rimasti laggiù, tra fango e sangue.
Ned o T. E. per gli amici fece la sua comparsa ad Oxford e portò una ventata di novità, un fattore di destabilizzazione per quei rigidi costumi ancora frastornati dal suono delle bombe. Lowell Thomas, reporter di guerra, lo aveva ribattezzato Lawrence d’Arabia, l’inglese che guidò i moti di ribellione in quell’intestino in subbuglio chiamato Medioriente. Robert Graves, poeta anch’egli scampato dalla falce del 1914-18, entra in contatto con la mole semi mitica di Ned, in un primo momento con una certa diffidenza per poi scovarne quel carisma che tramuterà in versi. Infine Jack, conosciuto anche come C. S. Lewis, anche lui coinvolto nel vortice di curiosità per la comparsa di Ned che lo spinge a conoscere il passato di quell’uomo misterioso ripercorrendo le orme lasciate durante la vita da un giovane studioso di archeologia divenuto, col tempo, Lawrence d’Arabia.
Wu Ming 4 scrive un romanzo nel romanzo, Stella del mattino è la storia di come le parole condensano le esperienze per trasformarsi in storie e quest’ultime, lette e metabolizzate da terzi vengono poi riproposte in altre storie dando vita ad una catena senza fine. Tolkien, nello scrivere le epiche imprese dei suoi personaggi, cercava la cura al suo dolore, al trauma inciso negli occhi di chi ha visto la vita spengersi nel fondo di una trincea: fossa per vivi. Lawrence d’Arabia è quella storia popolare fatta persona, è il fuoco sprigionato dal drago dalla coda lunga che si allunga da persona a persona, è l’anello di congiunzione delle vite di Ronald, Robert e Jack. Io consiglierei questo libro a chiunque voglia scoprire come nascono le storie, andare alla fonte di quel ruscello che può trasformarsi in torrente o in fiume in piena, per poi sfociare nell’oceano, nella collettività. Lo scrittore è un’antenna attenta a captare l’umanità, spesso nello scrivere le sue storie attinge da ciò che egli stesso ha provato, vissuto sulla sua pelle e allora lo scrivere potrebbe tramutarsi in una magnifica mescolanza di vissuto ed epico, un’alchimia capace di far vibrare i neuroni e, addirittura, fondersi col lettore raggiungendo l’empatia.
Stella del mattino è un libro coraggioso perché non vuole tagliare il traguardo dell’opera conclusa, definitiva, limitata al numero delle pagine e chiusa a chiave dal punto finale. Questo è un libro aperto, è una vena aurifera appena scoperta che cela nelle sue profondità ulteriori approfondimenti e si alimenta di ogni ricerca. Quando termino un romanzo e le sue parole fanno affiorare nella mia mente continue domande, vuol dire che quel romanzo ha raggiunto il suo scopo: mi ha donato gli strumenti per continuare a scrivere la sua storia, la nostra storia, quella che non finisce mai.

mercoledì 21 maggio 2008

Ci sono, ci sono


A prestissimo nuove recenzioni ed altri miei arrovellamenti su questo mondo che gira e gira, non preoccupatevi non vi mollo! Ultimamente ho fatto un bel pò di cose, tra queste sono stato al concerto di Lorenzo Jovanotti (che energia!). Nel video, quello con la maglietta a righe rossa e blu sono io che ballo sulle note di Serenata Rap, accanto a me la gentil donzella Fede. Salutoni!

giovedì 8 maggio 2008

Qualcosa si sta muovendo


Poco tempo fa sul sito dei Wu Ming è stato pubblicato New Italian Epic, un piccolo saggio scritto da Wu Ming 1 che cerca di riassumere appunti sparsi sulla letteratura italiana dal 1993 al 2008. Vale la pena leggerlo, e non lo scrivo in quanto appassionato del collettivo ma, bensì, come lettore vorace. Si perché NIE è un’analisi davvero nitida della letteratura nostrana, viene tracciato un percorso che indica quali mari stanno solcando scrittori come Giuseppe Genna, Carlo Lucarelli, Valerio Evangelisti e molti altri. E’ una nebulosa quella della NIE che attrae a sé opere dalle caratteristiche diverse, ma che sono accomunate da una ricerca di letteratura profonda. Spesso sono opere che tendono ponti temporali con passati ormai lontani, come ad esempio Manituana scritto dal collettivo o, al contrario, che intrecciano le loro trame con passati recenti, in questo caso Nelle mani giuste di De Cataldo. Sono opere popular perché si vestono di trame allettanti, coinvolgenti, capaci di rielaborare in scrittura le tipiche forme di intrattenimento narrativo provenienti dalla dinamicità del cinema; ma, allo stesso tempo, sono specchi in cui ritrovare la propria condizione, quella attuale.

L’input di Wu Ming 1 sta scatenando una serie di reazioni, ne sta nascendo un dibattito davvero interessante. Quella della New Italian Epic credo che sia il primo gradino di una scala appena scoperta che ancora non rivela la sua altezza. Ecco quindi la risposta di Valerio Evangelisti e Carlo Lucarelli sulla NIE, e poi quella di Claudia Boscolo, dottore di ricerca in italianistica presso la Royal Holloway, University of London e quella di Dimitri Chimenti, ricercatore presso l’Università di Siena. La dimostrazione che la nebulosa inizia a prendere forma, quale è ancora presto da prevedere, certo è che qualcosa si sta muovendo.

lunedì 5 maggio 2008

I colti da una parte, il resto dall'altra


Tra i servizi giornalistici più inutili trasmessi dalla televisione italiana ci sono quelli dedicati al traffico. Insomma, che senso ha intervistare automobilisti al casello, nuclei familiari sopravvissuti ad ore interminabili di traffico, che vorrebbero sfogare la loro rabbia in quel microfono ma che, al contrario, abbozzano un sorriso (falsissimo) e riassumono il loro lungo e faticoso viaggio? Perché i film di natale, quelli con De Sica e Boldi, sbancano i botteghini? Cosa si prova a fare parte del pubblico di Domenica In, la trasmissione-contenitore dove la stessa ragione umana si assopisce, lasciando spazio al vuoto, al nulla trasmesso via etere? A queste domande risponde Francesco Piccolo nel suo piccolo saggio-documentario L’Italia spensierata. Quattro capitoli che contengono esperienza in prima persona, quella dello scrittore che, uscendo dal guscio rassicurante dell’ambiente culturale italiano, s’immerge nella realtà profonda della massa. Un viaggio che illustra i movimenti dell’animale popolare che si muove lento e inesorabile lungo il nostro paese. Una bestia per chi ama respirare aria di “cultura”, un passatempo, una valvola di sfogo, un vivere anche per un solo attimo (si, un solo attimo), il prodotto medio che l’intrattenimento italiano offre. E allora ecco il nostro eroe passeggiare per gli autogrill, testimoniando il comportamento dei viaggiatori, quello spirito di solidarietà che si instaura tra sconosciuti seduti allo stesso bancone, pronti a consumare la vacanza e il caffè, tutte due altrettanto veloci. “Voi dove andate?”, “Noi sono già quattro ore che viaggiamo”, “allora buon viaggio, divertitevi”. Effettivamente Piccolo proietta nel libro, quasi fosse un documentario, il comportamenti tipico del consumatore pop. La fila al botteghino per il film Natale da qualche parte, ad esempio, è un atto che va oltre la semplice denigrazione sul contenuto del film, senza dubbio scadente e ripetitivo. Il 26 dicembre chi va al cinema non vuole pensare, è reduce da un tour parentale che mette a dura prova una produzione sufficiente di succhi gastrici, preferisce una tonnellata di equivoci e una serie infinita di doppi sensi purchè pensare. Il film di natale propone un distacco netto tra l’attore e il personaggio:

«Boldi interpreta il dottor Ranucci, De Sica interpreta Giorgio, ma questi due personaggi non sono mai davvero indossati dai due attori, ma usati. Il concetto è: faccio finta per un’ora e mezza di essere uno che si chiama Ranucci, faccio finta di essere uno che si chiama Giorgio, ma sia chiaro, io sono sempre Boldi e io sono sempre De Sica, sempre, quindi, le mogli di Ranucci e Giorgio non lasciano noi due ma, appunto, Ranucci e Giorgio – e chi se frega».
E’ la stessa impostazione del film a non chiedere nulla. A differenza del film di genere, che comporta l’immedesimazione dello spettatore nel personaggio attraverso la perdita della linea di confine tra finzione e realtà, qui non bisogna credere a nulla.

Nel libro di Francesco Piccolo c’è infine anche una riflessione dedicata all’ambiente culturale italiano, troppo spesso chiuso nelle sue mura, autoconfinatosi su pagine patinate, su riflessioni prodotte e fruite da pochi, perché più si è pochi e meglio è. Una differenziazione elitaria che da sempre contraddistingue la cultura italiana, un problema che può essere annoverato tra le cause di un mancato slancio culturale di massa del paese, da sempre. Come interpretare allora le parole di Piccolo?

«Cuore aveva nella sua ultima pagina una specie di concorso per i suoi lettori colti, ironici e intelligenti, dal titolo Il Giudizio Universale che chiedeva di indicare le cose per cui vale la pena vivere. Divenne una rubrica molto famosa e molto citata. Al primo posto di quella classifica, praticamente dal primo all’ultimo giorno, c’era la fica».